Janet Frame e Sylvia Plath Vite parallele oltre il dolore
La fotografia che si affaccia dal risvolto del primo libro in veste italiana di Janet Frame Dentro il muro (Interno Giallo, pagine 212, lire 23.000) ci mostra l’autrice neozelandese, celebre in patria e nel mondo, sorprendentemente simile alla protagonista del premiatissimo film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola. Anzi, a voler essere precisi, alle tre attrici che la impersonano in altrettante stagioni del vivere.
La regista le ha trovate, tutte e tre brave, dai tratti somatici così affini da rendere verosimile l’evolversi fisico di Janet, che è soprannominata Ricciolina per la massa di capelli che le incorniciano il volto come un elmo fiammante. Il ritratto fotografico ci mostra Janet com’è oggi, una signora avanti negli anni – è nata nel ‘24 – dai capelli sempre liberi e ondosi, con occhi indagatori e un sorriso incerto, come di chi è disponibile al mondo ma non se ne fida del tutto. Un volto che subito mi ha rievocato le sagaci corrispondenti di Madame Deffand o le zitelle intrepide di tanta narrativa inglese.
Un angelo alla mia tavola è un film con gran prevalere di donne – anche la sceneggiatura e il montaggio sono firmati da mani femminili – film di qualità spirituale rara, dove il rispetto dei sentimenti e delle cose è la vera matrice della storia che pur toccando momenti di drammatica tensione non cede mai all’effetto, alla sottolineatura retorica, al commento lacrimoso: i colori sono smaglianti nel paesaggio, ma nell’indagine dei volti sono smorzati come avviene per pudore che la voce si faccia sommessa davanti alla tragedia del dolore. Il pedale tragico, che c’è e come, perché così la sorte di Janet ha voluto, è usato con cauta perizia dalla regista.
Il film racconta la povera infanzia della paffuta Ricciolina tra le sorelle e il fratello in una famiglia povera ma calda di affetti, poi l’adolescenza che vede fiorire sotto quel modesto tetto il fiore insolito e splendente della poesia, cosicché Janet parte per scuole solo sperate e rese possibili dalle borse di studio; il secondo blocco – che corrisponde al secondo volume del romanzo autobiografico della Frame – rievoca le sventure della clinica psichiatrica, 9 anni di inferno, c infine la terza parte accompagna Janet all’estero, prima a Londra, poi a Ibiza e nel suo ritorno in patria, con la conferma, quanto dolorosamente conquistata ma vincente, della sua vocazione di scrittrice.
Ora, nel libro appena tradotto, possiamo leggere dal vivo l’esperienza di allucinante
La scrittrice neozelandese, dichiarata schizofrenica senza esserlo, visse nove anni in manicomio. Rischiò di essere sottoposta a lobotomia e subì ben duecento elettrochoc
crudeltà che la Frame visse: dichiarata schizofrenica – con una leggerezza criminale – subì negli anni del ricovero psichiatrico 200 elettrochoc e evitò quasi per caso un intervento di lobotomia.
È difficile dare un giudizio che sia soltanto estetico su un libro come questo: occorrerebbe tra l’altro avere tra le mani anche le altre parti che lo compongono. Tuttavia la forza di fascinazione che da queste pagine di cronaca fuori dal mondo – il manicomio lo è – emana, è tale, che di sicuro si può dire che la Frame ha avuto dalla sorte il dono della scrittura. Pagato a un prezzo così alto da farne una vittima e un’eroina. Altri, sapienti di ciò che clinicamente sia la malattia mentale, giudicheranno nelle sue denunce di diagnosi e di metodi terapeutici questo romanzo della follia, che fermamente tratteggia i volti allucinati di chi ne è colpito, i loro corpi goffi, e anche le volu
te tenebrose dei pensieri stravolti. La rappresentazione che qui della follia si dà, il modo in cui la follia è scritta, è opera di una scrittrice senz’ombra di dubbio. Capace di dipingere a grandi tratti un reparto di malati come un girone infernale, e anche di registrare i tremori e i sogni di un attimo di solitaria quiete tra le pareti dell’orrore o di seguire come una formica tenace i pensieri nascosti dietro le parole burocratiche o menzognere o pseudopietose di infermieri e di medici.
La follia, il suo volto meduseo, è il vero personaggio di Dentro il muro: chi entra cittadino nel suo regno patisce l’emarginazione assoluta; anche se qualcuno lo amava prima che il marchio del folle gli fosse impresso sulla fronte, è pavido a mostrarlo, esita, fugge, perché la follia è vergogna; la sola speranza della società è che quietamente si dimentichi il pazzo.
«Così il tempo cadeva su di noi, come neve, soffocando le nostre grida e le nostre vite». Nel vuoto, «i rumori collegati all’elettrochoc,
La poetessa americana, lacerata da una depressione suicida, pativa la perplessità e la disapprovazione con cui era guardata. Dopo la morte divenne il simbolo della condizione femminile
un allenamento per Sing Sing»...
Povera Janet, diversa perché più vibratile, perché più facile a sognare a esaltarsi e perciò anche a deprimersi, diversa perché le parole le cantano in cuore prima ancora che le compiti in sillabe, diversa perché autonoma nelle scelte in un mondo maschile omologato nei ritmi e nei costumi, diversa perché donna, diversa perché scrittrice. Come chiamava Cartesio la fantasia? «La folle du logis». Ogni scrittrice in un tempo che non è poi troppo lontano da noi, lo è stata per i più. A qualcuna come alla Frame è toccato pagare un prezzo mostruoso. Averlo saputo raccontare senza vergogna, alteramente, è il segno della necessità della sua scelta. In cui un’altra donna, la Campion, si è rispecchiata con artistica dignità e partecipazione fraterna.
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti da quando la Woolf scriveva: «Per una ragione o per l’altra gli “highbrow” sono totalmente incapaci di fare i conti con quella che si chiama comunemente la vita reale». Com’è noto, per
«highbrow» la Woolf intendeva gli intellettuali puri, i poeti, donne e uomini «con un’intelligenza di prim’ordine che come un purosangue lancia la propria mente al galoppo per tutto il paese alla ricerca di un’idea».
Eppure la mediocrità tranquilla che sa conciliare l’arte con la vita, e induce la scrittrice inglese a gettarne i libri come inutili, «lievemente nei campi, oltre la siepe», fu cercata, quasi con affanno, da un’altra scrittrice dal destino tragico che una biografia ponderosa di Anne Stevenson Serra e Riva, pagine 390, lire 30.000) appena uscita da noi ripropone all’attenzione: Sylvia Plath. Forse una donna che scrive avverte come doppiamente trasgressiva la sua anomalia: vuole i talenti che natura le ha elargiti ma anche essere amata com’è.
Una spirale di aspirazioni e pulsioni contrastanti che ha un costo inevitabile nella malinconia di sapersi guardata con perplessità o con disapprovazione e che qualche volta trova un esito lacerante nella depressione suicida.
La donna che vuole essere un soggetto, e dirlo, con le parole della poesia, è non per caso il tema di tante pagine del femminismo, sul cui senso, storico ed etico, ci si sta da più parti di nuovo interrogando, anche con asprezze polemiche di scarsa eleganza. Ma non ne parlerei se, oltre le teorie più o meno filosoficamente autorevoli, non ci trovassimo qui di fronte ad autentiche opere letterarie, eloquenti di per sé, al di là di chi le ha firmate. E che hanno in comune il misterioso nucleo originario dell’autodistruzione consapevole parallela alla ricerca dell’espressione creativa.
Il lavoro biografico della Stevenson è onesto, assiduo, diligente, e ci accompagna nel percorso esistenziale di Sylvia Plath – trent’anni di ardua intensità – facendo luce non solo sui luoghi, gli studi, la famiglia, gli amori, ma anche sui pregiudizi che si sono accumulati intorno a questa donna che è diventata dopo la morte il simbolo della condizione femminile e non solo nella patria di Fitzgerald, alla cui leggenda si affiancò presto la sua: insieme genio creativo e tenera Zelda, interprete dei suoi anni e proiezione romantica di un diverso sogno americano. Ma la Stevenson non ha tanto scavato le fonti e il senso letterario di Sylvia quanto le componenti della sua educazione scolastica e sociale, facendo ordine nel materiale documentario in gran parte postumo ad opera della madre di Sylvia e del marito, il poeta Ted Hughes. E, soprattutto, ci ha indotto a rileggere Sylvia, romanziera e poetessa: La campana di vetro è quasi una cronaca del suo essere e del suo divenire, splendidamente inquietante come le liriche: una parola sempre fiammante, in prosa e in
Nelle loro opere l’autodistruzione corre insieme alla ricerca dell’espressione creativa. E, con destini diversi, le avrebbe unite anche il recupero della gioia di vivere
poesia, dove la verità dei sentimenti c delle intuizioni è colta per immagini di una bellezza talvolta smagliante talvolta lunare, poesia come felicità e come perdizione.
«V’è forse qualche via d’uscita dalla mente? Alle mie spalle gradini a spirale scendono un pozzo». Ma per la persona che è sotto la campana di vetro, vuota, e che è bloccata là dentro come un bimbo morto, il mondo è in sé un brutto sogno».
Solo la scrittura poteva rompere la prigione di quella campana crudele e forse il suicidio, come altre volte, fosse stato sventato, Sylvia avrebbe potuto al pari di Janet Frame riafferrare la gioia della vita che lei aveva, nella prima giovinezza, innamoratamente furiosamente, fatto desiderare tutto e tutto volere. Resta lo strazio di quel suo sospiro: «Oh, se solo mi lasciassero a me stessa, che poeta riuscirei a tirar fuori». Ma quel poeta, giovane Iddio, nel suo volo troppo breve, ha tuttavia lasciato un segno non cancellabile.