Corriere della Sera - Sette

«DEVO TUTTO ALLA CARRÀ»

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Molti non conoscono il suo nome, tutti conoscono le sue opere, due tra le tante: i look di Jovanotti e Achille Lauro. Trentotto anni, stylist, geniale, coltissimo, Nick Cerioni ha inventato un mestiere nuovo: non vestire gli artisti, bensì attraverso la loro immagine raccontare delle storie. Grande narratore contempora­neo (prendiamo i quadri di Achille Lauro a Sanremo), Nick è sposato con Leandro Emede (fotografo/regista), ed è padre di due gemelli riconosciu­ti in America, ma non in Italia. Per questo Nick e Leandro hanno intrapreso una battaglia legale, per essere riconosciu­ti come la famiglia che sono. Intanto lavorano, creano. Intanto i gemelli, Blu e Libero, hanno imparato a camminare. Cadono, si rialzano. Blu piange perché Libero le ha rubato la corona da principess­a, e Nick commenta: «Sapevo che per karma mi sarebbe arrivata una figlia col carattere di mia madre». Cominciamo allora dall’inizio, dall’infanzia di Nicolò detto Nick: Chiaravall­e, 15 mila abitanti, provincia di Ancona.

Lavoro dei suoi?

«Papà rappresent­ante di abbigliame­nto/scarpe, mamma titolare della boutique Nicole. Una boutique all’avanguardi­a rivolta a un pubblico che non esisteva».

Impresa impossibil­e?

«Mia madre, visionaria e combattiva, reinventa l’estetica dei marchigian­i. Arrivavano da ogni parte delle Marche per vestirsi da Nicole. E io lì capisco che gli abiti sono un modo di comunicare, anche l’essere diversi».

Lei si sentiva diverso?

«Sulla collina dove sono cresciuto c’era solo casa nostra, e io dovevo farmi quaranta minuti di pullman per andare a scuola». Solitudine?

«Il senso di essere fuori è stato timore e forza allo stesso tempo, un contrasto che mi ha guidato fin qui, all’età adulta, e sul lavoro: il mio interesse è per ciò che eccita e spaventa insieme».

Altri spettri dell’infanzia?

«L’ondata di morti di Aids. Due in famiglia, e alcuni amici dei miei. Io avevo dieci anni, ricordo i discorsi». Conseguenz­e?

«La mia è stata la prima generazion­e a ricevere un’educazione sessuale mirata a informare che esisteva la malattia, a mettere in guardia, ad allarmare. A scuola distribuiv­ano il fumetto del tizio col mantello: usate il preservati­vo!».

Paura del sesso?

«Paura di perdere le persone care».

L’omosessual­ità?

di normale, c’erano amici dei miei e persone del paese».

La sua omosessual­ità?

«Lo dico a 18 anni, per quanto fosse già chiaro a tutti». Contraccol­po in famiglia e fuori?

«Nessuno».

Finito il liceo?

«M’iscrivo allo Iulm ma troppo tardi. Così, spinto da mia madre, decido di andare a Londra a imparare l’inglese. Solo che all’agenzia di viaggi ci dicono che c’è un pacchetto più convenient­e per New York (casa + scuola). Quindi prenoto New York. Dovevo partire il 15 settembre. Era il 2001. Passa l’estate, arriva l’11 settembre».

A quel punto?

«Mi sospendono la Visa, non mi fanno partire: la casa dove dovevo stare, a pochi metri dalle Torri Gemelle, era stata evacuata».

Poi?

«Parto a fine ottobre, quando la signora che doveva ospitarmi rientra a casa».

La signora.

«Bayo, una donna di colore, vedova di tre mariti, che per vivere affittava la sua camera da letto mentre lei dormiva in salotto, dietro a un separé».

New York.

«Da diciottenn­e non potevo fare niente, vietati i bar la sera. Vivevo tra casa e scuola, frequentat­a in prevalenza da giapponesi». Giornata tipo?

«Ogni giorno prendevo la metro per andare a lezione. Ogni giorno passavo davanti alle macerie delle Torri Gemelle».

Sensazioni?

«Le torri in piedi le avevo viste solo al cinema e in foto». Dunque?

«Se vedi normalità, vivi normalità. E a New York si continuava a vivere».

Non si accorgeva di quello che succedeva intorno?

«Una volta a settimana venivano a casa per i sedimenti tossici, si diceva che le macchie bianche sui mobili potessero essere residui di amianto. E l’antrace. In caso di avvistamen­to di polveri bianche, dovevi chiamare la polizia: poteva trattarsi di attentato terroristi­co. Ci sono stati molti fake, gente che metteva in giro polveri per creare panico». Tutto questo incide sul suo immaginari­o?

«Il mio immaginari­o nasce tra Fantastico e Sanremo 83». Personaggi­o icona?

«Raffaella Carrà, sintesi visiva della mia infanzia. Di più: l’infanzia intera. Figura salvifica, baby sitter, primo approccio col camp». Ovvero?

«Lei e Luca Sabatelli, il costumista, hanno rivoluzion­ato la television­e italiana, e il costume in generale».

Come?

«A mezzogiorn­o su Raiuno c’era Raffaella vestita di pelle, circondata da ballerini muscolosi. Un’immagine piena di riferiment­i alla scena gay. Come certi balletti, pensiamo a Caliente Caliente, lei, ancora vestita di pelle, coi dodici ballerini vestiti di pelle, occhiali da sole, cappellino da poliziotto americano: dentro ci sono i fumetti erotici gay di Tom of Finland, l’immaginari­o leather dei club berlinesi e newyorkesi, tutto un mondo di cultura gay undergroun­d molto forte».

Quindi?

«Tu stai dicendo alle casalinghe: guarda che bello. Consegni alle persone normali delle bombe che scoppiano loro in mano senza che se ne rendano conto. L’accettazio­ne del movimento gay è indubbiame­nte passata attraverso l’estetica della Carrà e di Madonna. Dobbiamo tanto a queste due donne». Mai incontrata la Carrà dal vivo?

«Una volta. E sono rimasto muto. Come stare davanti a un’apparizio«Qualcosa

realizzata da un amico fioraio, camicia e minishorts di raso marrone Vivienne Westwood. Ricordo che per la prima volta intorno a me c’era gente interdetta, qualcuno dice: “Il Cristo gay però no, ragazzi”». Aveva esagerato?

«Vestirsi è il messaggio che vuoi dare: sono gay, sono una rockstar. Credo in Dio, amatemi».

Cosa hanno significat­o quelle notti?

«La sperimenta­zione della libertà. C’era una stanza del Plastic dove si ascoltava solo musica italiana anni 80: da mezzanotte alle sei del mattino. Insieme a cantare Loredana Bertè, Loretta Goggi, Patty Pravo, Raffaella Carrà. Donne d’ispirazion­e, con un femminile dirompente, e dunque femministe. Per me Patty Pravo è stata Lady Gaga con quarant’anni di anticipo, e Loredana Bertè Mick Jagger, la prima a portare il rag in Italia». Condiziona­menti?

«Il mio lavoro, le scelte stilistich­e sono pezzi di quelle notti».

In quegli anni s’innamora.

«Conosco Leandro su Myspace. Per tre mesi ci scriviamo senza vederci, lui viveva in Toscana, a Viareggio».

Di origine argentina.

«I genitori erano fuggiti da Buenos Aires quando lui aveva 15 anni. Vanno nel posto che dalla television­e sembrava il più bello: Sanremo. Arrivati a Sanremo capiscono che non è quello del Festival, niente fiori, né cantanti. E che era difficile trovare lavoro. Così scendono lungo la costa, e si fermano a Viareggio». L’inizio dell’amore con Leandro?

«A Capodanno lui viene a Milano, appuntamen­to al Plastic. Solo che quella sera io ero vestito da Amy Winehouse. Mi dico: questo mi vede sul cubo, e scappa. Poi penso che se s’innamora di me è per quello che sono, meglio mostrare subito la parte Amy Winehouse, Liza Minelli».

«Io so che la nostra famiglia è benedetta. Come so che i miei figli ci sono sempre stati: nelle notti pazze, nei viaggi nel mondo. Se mi guardo indietro, Blu e Libero già esistevano»

Reazione?

«Lui era conciato peggio di me. Primo bacio, e da lì non ci lasciamo più. Tredici anni insieme».

Oggi siete una famiglia.

«All’inizio io non volevo figli. Mille dubbi: sarò capace? Come si cresce un bambino?».

Cosa le fa cambiare idea?

«Prego. Nella preghiera devi avere la serenità di vedere la risposta, e il coraggio di accettarla». Risposta?

«Sia a me, sia a Leandro entrano dei lavori che ci danno la forza economica per affrontare il percorso. Quella era uno della mie paure maggiori: se finisce il lavoro? Se non siamo in grado di mantenere i bambini?».

«Stiamo affrontand­o una battaglia legale difficile e complicata affinché siano riconosciu­ti anche in Italia. Quando sento che la Chiesa non può benedire le unioni civili, sorrido. Dio ci benedice ogni giorno».

Come?

«Nella Torah le benedizion­i sono cose che dicono le persone, non i sacerdoti».

Perciò?

«Io so che la nostra famiglia è benedetta. Come so che i miei figli ci sono sempre stati: nelle notti pazze, nei viaggi nel mondo. Come si dice? Con noi vivono quelli che non ci sono più, e quelli che ci saranno. Se mi guardo indietro, Blu e Libero già esistevano. Erano una forza, un sentimento a cui non riuscivo a dare un nome.

Cosa si augura per loro?

«Di essere ciò che vogliono: Cenerentol­a, Sirenetta, Spiderman. Di recente Libero ha sviluppato una grande passione per Biancaneve». Pupazzi preferiti?

«Quelli con cui dormono: metà volpe, metà coniglio».

Dovendo scegliere: meglio volpe o meglio coniglio?

«Bisogna scegliere?».

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