Cosa ho imparato scattando
Prima del Covid stavo raccontando la malattia mentale in Africa, poi quando tutto si è fermato ho cominciato a lavorare sulla realtà psichiatrica qui in Italia. Ho vissuto per un anno con chi è rinchiuso nella propria mente e ha un rapporto con la realtà diluito nel tempo. Un viaggio partito dal punto più basso, gli SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), proseguito nelle cliniche, nelle comunità terapeutiche, fino alle Case famiglia, dove i pazienti raggiungono il punto più alto di autonomia. Sono stato anche nelle Rems, piccole prigioni che ospitano pazienti con problematiche psichiche che hanno commesso reati. Il mio viaggio nella psichiatria è iniziato grazie l’appoggio del direttore della Asl Roma1 Giuseppe Ducci che ha creduto nel progetto, nel voler raccontare cosa è oggi la psichiatria e come è cambiata negli ultimi venti anni. Nel mio lungo percorso ho incontrato persone favolose: psicologi che gestiscono alcune comunità della Asl Roma1 come Rosamaria Scalise, Vanda di Nella, Michele Procacci; Maria Rosaria Barbera che coordina parte delle case famiglia a Roma nord; infermieri instancabili che con grande umanità lavorano negli SPDC dell’ospedale San Filippo Neri e Santo Spirito come Salvatore Pane ed Eleonora Salustri e operatori come Rita, Omar, Paola, Ferdinando, Aurora e tanti altri. Questo progetto fotografico lo abbiamo costruito tutti insieme.
Ho capito è che la malattia mentale è dolore, forte, intenso che ha dei passaggi intermedi. È su questi si prova a lavorare, ogni giorno.
«Un’ultima cosa padre Christian: abbiamo appena ricevuto dal Santo Padre la sua nomina a vescovo di Rumbek…».
Padre Christian Carlassare, missionario comboniano, 43 anni, originario di Schio in provincia di Vicenza, si accascia, come stordito, su una panca. Dall’altro capo del telefono, il rappresentante in Sud Sudan del nunzio apostolico teme sia caduta la linea: «Pronto, padre, mi sente? Deve dirmi se accetta».
Quindici anni in una palude in Sud Sudan ai confini del mondo, senza acqua o elettricità, con l’incubo della guerra civile. Padre Christian ora ha 43 anni: «Quando arrivai incontrai una donna, Rebecca. Disse: “Ti accogliamo come nostro padre, anche se sembri nostro figlio”»
Lo choc
Il più giovane vescovo cattolico del mondo fatica ad articolare una risposta sensata, balbetta: «Ma…, ma non c’era modo di parlarne prima? Io non ho esperienza…, ho la mia gente laggiù nella palude…, non so stare dietro a una scrivania…». Per quasi un’ora cerca di far valere le sue ragioni, le sue paure, i suoi sentimenti, la sua fragile natura umana.
«Insomma, immagino sia un sì!».
«Aspetti, posso richiamarla tra un’ora?».
Frastornato, padre Christian scende in cappella, s’inginocchia e, prima di pronunciare il «Padre
A sinistra Padre Christian
Carlassare, 43 anni, a Nyal, nel
2005, con un bambino che ha perso una gamba in seguito al morso di un serpente. Qui sopra il religioso a Fangak nel 2014 mentre battezza
alcuni bambini mio mi abbandono a te» insegnato da Charles de Foucauld, con lo sguardo fisso al Cristo in croce riavvolge nella memoria i quindici anni trascorsi in un luogo che definirlo martoriato è un peccato veniale, tanto è riduttivo e può apparire una bugia.
«Sono nato il primo ottobre 1977 in una famiglia cattolica ma non particolarmente osservante. Sì, avevo un prozio missionario, ma la fiammella che determina le mie future scelte forse si accende il giorno in cui giunge la notizia che lo zio (padre Egidio Ferracin, missionario in Uganda) del ragazzo con cui gioco a pallone è stato martirizzato. La mamma dell’amico si accorge del mio turbamento e mi regala l’abbonamento a una rivista missionaria per ragazzi».
La vocazione sboccia alle superiori e il giovane Carlassare, dopo gli studi teologici e due baccalaureati in Teologia e Missiologia, nel settembre del 2004 è ordinato sacerdote. Dopo un soggiorno a Londra per perfezionare l’inglese lo destinano al Sud Sudan, Paese devastato ma che sembrava finalmente destinato a una lenta rinascita dopo la fine della seconda guerra civile.
Il lento avvicinamento alla nuova vita comincia dall’aeroporto di Nairobi, in Kenya, dove la civiltà, come la intendiamo noi europei, non è poi così distante.
«Il mio mondo era “chiuso per guerra”. Si entrava con un lasciapassare non del governo ma dei ribelli, quelli che adesso comandano. Da Nairobi proseguiamo con un piccolo aereo dell’Onu carico di aiuti umanitari fino ai confini del Sud Sudan, a Lokichoggio», dove le
organizzazioni umanitarie hanno allestito un campo e tengono brevi corsi di sopravvivenza per chi è così folle da addentrarsi in quel territorio. Giusto il tempo di chiedersi se ne vale la pena, insomma, poi missionari e volontari vengono fatti salire su Chessna a dieci posti e accompagnati nello scantinato della terra.
«Lokichoggio è una piana in mezzo al nulla. Entrati in Sud Sudan, sotto di noi, per un’ora buona, solo savana senza ombra umana. Dopo comincia la palude. La popolazione Nuer, che mi aspetta, vive ai bordi della più grande zona allagata del mondo. Voliamo per un’altra ora e mezza su terra zuppa d’acqua. Mi si stringe il cuore: dove sto andando a finire? Lì il Nilo si mangia tutto. Per sorreggermi sgrano il rosario. Poi l’aereo comincia a scendere e lontano si intravedono capanne e una pista di sabbia di mezzo chilometro invasa da pecore e vacche. Il pilota volteggia su di loro, come dicesse sciò-sciò, due, tre giri, fino a quando sgombrano e noi possiamo atterrare».
Due missionari scendono dall’aereo, uno più anziano e l’altro con la faccia da bambino, Christian. Ha il cuore gonfio di emozione e di timore finché un gruppo di persone, sciamando dalle capanne, gli va incontro: «Abbiamo pregato molto per avere un altro prete con noi». Da tempo, tra un conflitto e l’altro, non ne erano rimasti. Quando raggiunge Fangak, la base della sua missione per dieci anni,
«La missione è grande come il Veneto, dove sono nato. Ottanta villaggi da raggiungere a piedi o in canoa, stando attenti a coccodrilli, ippopotami e pitoni. Ma il vero pericolo sono gli uomini: qui è stato tutto distrutto. Ricostruiremo»
lo accoglie una donna rispettata come un capo. Si chiama Rebecca Nyaleak, lo squadra come un sergente revisiona una recluta, e gli dice: «Ti accogliamo come nostro padre, anche se sembri nostro figlio, e vedrai che ti aiuteremo a diventare un uomo». In un attimo comprende che il percorso che lo aspetta non è poi così difficile: «Basta identificarsi con loro».
Con un po’ d’ironia, faccio notare a padre Christian che lì, in mezzo al nulla, senza energia elettrica, acqua corrente, mezzi di trasporto, né strumenti per comunicare, in capanne di fango e paglia, non è poi così difficile giungere a quella conclusione. Più complicato è riuscirvi, e allora sì che deve dare fondo a tutto l’amore per il
prossimo e per il Vangelo. Sorride padre Christian, che oggi, pure con la barba, continua a sembrare troppo giovane per essere chiamato eccellenza come si addice a un vescovo. «Ma non sai tutto» continua a ricordare: «La nostra missione è vasta come il Veneto, ottanta villaggi da raggiungere a piedi o in canoa. Per visitarne alcuni impieghiamo tre o quattro settimane. Mi accompagnano dei fedeli armati di lance. Cento chilometri sono una passeggiata. Si pagaia per due o tre giorni, si dorme in canoa e, quando possibile, su isolette appena emerse, stando attenti a non disturbare i coccodrilli, gli ippopotami, i pitoni. Passo due mesi l’anno nella missione, per il resto sono un predicatore errante di villaggio in villaggio e a ogni tappa imparo qualcosa, sento che questa è la mia vita, la serenità mi fiorisce dentro. Non sono io che porto aiuto, sono loro che si occupano di me, mi ospitano nelle capanne, provvedono per me al cibo, sono tante piccole comunità cristiane primordiali».
La guerra
Non è da ippopotami e pitoni che viene il pericolo, comunque, è dagli uomini che bisogna guardarsi. «I primi anni assisto solo a scaramucce tra etnie per pascoli, vacche e ragazze. Poi riprende la guerra civile. Malakal passa di mano otto volte. Noi cominciamo a vivere e dormire con lo zaino in spalla, pronti a scappare se il tonfo del mortaio si fa troppo vicino. Le bande sono fuori controllo e la vita vale niente. Da noi non arrivano ma nella missione vicina sì. Fuggono tutti nella palude e vengono salvati due settimane dopo da un contingente dell’Onu. Tutt’intorno migliaia di persone trucidate. Le città trasformate in desolati campi di battaglia. Poi pare che le armi tornino a tacere». Quando padre Christian riprende a viaggiare tra palude e savana, arriva la prima chiamata. Nel 2017 gli chiedono di occuparsi delle nuove vocazioni e nel 2020 lo nominano vicario generale della diocesi di Malakal, grande come il Veneto e la Lombardia messi insieme. Rebecca Nyaleak, la donna che lo aveva accolto nella sua prima missione, è l’ultima a salutarlo: «Ti abbiamo preso bambino e hai visto come ti abbiamo fatto uomo!». Si abbracciano.
Malakal è stata distrutta nel 2014: rasa al suolo. Aveva 180 mila abitanti di diverse etnie, ora ne ha 20 mila, di una sola etnia; a otto chilometri è sorto un capo profughi con 30 mila persone di un’altra etnia; gli altri, quelli che si sono salvati, si aggrappano alla vita nella palude. Tutto è stato distrutto o saccheggiato, non è rimasto nulla, neppure un mattone, nessun maestro spalanca le porte di un’aula scolastica, anche perché non ce ne sono più da aprire. Otto anni senza un abc, senza l’esortazione di un insegnante, con ragazzi e adolescenti addestrati e armati per la guerra.
Padre Christian è lì, nella cappella, che recita la preghiera di Charles de Foucauld. Ora la sua missione è di riportare le etnie scacciate e trucidate, di riaprire le scuole, di ricostruire case e chiese, di rigenerare la comunità cristiana. «Ero aperto ad altre esperienze, chissà, avrebbero potuto chiedermi di andare in Giappone o a fare il parroco in un paesino del lago di Como. Questa chiamata mi porta a pronunciare un nuovo voto indissolubile, come un matrimonio con il Sud Sudan». Doveva aspettarselo, qui lo chiamano «l’italiano sud-sudanese», il «bianco Nuer», il «bianco Dinko». Risale al piano superiore e richiama il rappresentante del nunzio apostolico: sì, sarà vescovo.