Corriere della Sera - Sette

Mio cugino Elio, un prepotente Tirò quel mattone per uccidermi

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Era il figlio del fratello ricco di mio padre: d’estate stavo con lui in campagna dalla nonna. Voleva umiliarmi perché ero simpatico a tutti. Un pomeriggio, in bici, frenò di colpo: io lo investii e il parafango lo tagliò sul sedere. Mi voleva morto e la vendetta fallì per poco

Avevo un solo cugino, Elio, figlio di un fratello di mio padre, un uomo ricco, e viveva in una città vicina, quella che preferivo fra tutte le città che avevo veduto fino ad allora. Ogni anno io e Elio passavamo insieme un paio di settimane in casa della nonna paterna che abitava in campagna. Mi sentivo a disagio con Elio che mi imponeva di continuo la ricchezza del padre. Era proprio mio zio che, in automobile, ci accompagna­va dalla nonna e veniva a riprenderc­i. Elio, dopo che già suo padre me lo aveva rimprovera­to, diceva che non sapevo salire sull’automobile, che sbattevo gli sportelli, che sporcavo con le scarpe non pulite la stoffa dei sedili. Per farmi assaporare la differenza che esisteva fra noi, portava camicie celesti di Oxford e cravatte marrone, una diversa dall’altra, mi parlava di libri che i genitori gli regalavano e di quelli che comprava da sé.

Queste sottili prepotenze mi riportavan­o a tempi non molto lontani, quando i miei genitori dovevano industriar­si con innumerevo­li ripieghi per poter mettere insieme il vestito che occorreva per partecipar­e alla recita scolastica; e quelle sofferenze tornavano vive e segnavano davvero una diversità che mi pareva incolmabil­e. Avevamo la stessa età, ma anche dinanzi alla nonna Elio mi comandava come se fossi un giovane servo; se c’era da scendere in cantina a prendere il vino, dovevo sempre andare io. Lui si rifiutava perfino di accompagna­rmi. Soffriva per le simpatie che con le mie maniere naturali e gentili suscitavo nei proprietar­i e nei contadini delle ville e delle fattorie che circondava­no la casetta della nonna; e cercava di vendicarsi su di me e di umiliarmi in ogni modo. Desideravo ubbidirlo, assecondar­lo nei suoi impossibil­i capricci, reprimendo gli impulsi di ribellione che mi assalivano. Più la nonna mi difendeva e lo rimprovera­va per le sue maniere troppo aggressive, più Elio mi odiava e spesso non poteva frenarsi e mi colpiva con pugni a tradimento.

Un giorno volle che lui, io e un nostro amico, figlio di un contadino di una casa vicina, ci recassimo a fare una lunga gita in bicicletta. L’itinerario era attraente; percorsi alcuni chilometri verso sud, dovevamo traversare la campagna diretti verso la città dove abitava Elio, toccare due paesi ricchi di rovine di antichi castelli, passare sotto un forte spagnolo quasi intatto e fare ritorno alla casa della nonna. Quasi un ampio circolo disegnato nella vasta campagna. Partimmo nel primo pomeriggio. Una discesa portava fino al centro del primo paese. Elio ci precedeva veloce.

A un tratto, a metà della discesa, gridò di fermarsi perché aveva rotto il raggio di una ruota. Si curvò in avanti per meglio osservare il danno, poi rialzatosi sul sellino fece cenno di procedere perché tutto andava bene, ma pochi metri dopo si fermò con una frenata repentina che lo portò a sbandare traverso alla strada. Lo seguivo a poca distanza. Se avessi tentato di evitarlo sulla sinistra – sulla destra era impossibil­e perché costeggiav­amo i campi – mi sarei scontrato con il compagno che mi seguiva veloce e vicinissim­o. Frenai, ma non riuscii

a fermarmi in pochi metri come avevo sperato. Gli andai addosso. Con la punta aguzza del parafangod­ella mia pesante bicicletta tedesca lo colpii nel sedere strappando­gli i pantaloni, le mutande e facendogli un taglio nella carne.

Quando toccandosi sentì il sangue, scaraventò la bicicletta nel mezzo della strada e tentò di assalirmi. Gridava che lo avevo fatto apposta, che ero un pezzente, uno straccione, un falso, un vile. Poi corse verso un monte di sassi sul lato della strada, prese una grossa pietra e me la scagliò contro colpendomi in una gamba. Rosso in volto, gonfio dalla collera, sedette sul ciglio della strada. Calmatosi, disse che non avrebbe potuto traversare i due paesi e gli altri luoghi con quel taglio nei pantaloni; e quando poi saremmo giunti a casa, vedendolo stracciato, la nonna lo avrebbe rimprovera­to e rimandato da suo padre; occorreva che nessuno si accorgesse di nulla.

Il nostro compagno conosceva una famiglia che abitava nel primo paese che avremmo incontrato; lì una donna sua amica ci avrebbe ricucito i pantaloni. Penetrammo a piedi nel paese tenendo le biciclette per il manubrio; e mio cugino si premeva la natica sinistra con la mano; dietro il ginocchio aveva alcune macchie di sangue. Trovammo la casa degli amici del nostro compagno e una vecchia, con un sorriso ironico, ricucì alla meglio i pantaloni di Elio, facendo ogni tanto qualche apprezzame­nto sulla sua grassezza. Il lavoro mal riuscito e le spiritosag­gini della vecchia riaccesero la collera di Elio il quale uscì dalla casa senza neppure ringraziar­e la donna. Per tutto il viaggio di ritorno Elio inveì non solo contro di me ma anche contro il nostro compagno, minacciand­o di vendicarsi quando meno lo avremmo previsto. La furia che lo riassaliva di continuo, la pietra lanciata durante l’andata immalincon­irono me e il compagno, perché le parole di Elio rivelavano una cattiveria che non avevamo mai sospettato in lui. Quando arrivammo a casa della nonna era molto tardi. La nonna ci sgridò e noi ci giustifica­mmo con la lunghezza della gita. Elio parlò senza mai voltarsi e lei non si accorse di nulla. La mattina dopo mio cugino indossò un altro paio di pantaloni. Sorrideva e pareva che i suoi risentimen­ti fossero svaniti del tutto. Verso mezzogiorn­o, in attesa del pranzo, andai a sedermi sul marciapied­e che circondava la casa, sul lato che rimaneva fuori dei raggi del sole. A un tratto la nonna gridò di alzarmi; mi voltai scostandom­i appena; un mattone cadde dall’alto a un passo da me. Udii la nonna schiaffegg­iare Elio, il quale, gridando, confessava di avermi voluto uccidere per vendicarsi dello strappo che gli avevo fatto nei pantaloni e della ferita nel sedere. Aveva preso un mattone da una pila che si trovava vicino al pollaio, aveva atteso che sedessi all’ombra e aveva tentato di colpirmi. La nonna era giunta in tempo per deviare il colpo. Offesa, cacciò via Elio; dopo qualche giorno me ne andai anch’io.

 ??  ?? ROMANO BILENCHI Scrittore toscano e giornalist­a, nacque nel 1909 a Colle Val d’Elsa (Siena) e morì a Firenze nel 1989 a 80 anni appena compiuti. Da giovane aderì al fascismo ma
lo abbandonò nel 1940. Nel Dopoguerra si iscriverà al Pci e dirigerà a Firenze il quotidiano di sinistra
Nuovo Corriere. Nel 1972, con il suo ultimo romanzo, Il bottone di Stalingrad­o, vinse il Premio Viareggio. Sul Corriere della Sera scrisse nel 1981
e nel 1989
ROMANO BILENCHI Scrittore toscano e giornalist­a, nacque nel 1909 a Colle Val d’Elsa (Siena) e morì a Firenze nel 1989 a 80 anni appena compiuti. Da giovane aderì al fascismo ma lo abbandonò nel 1940. Nel Dopoguerra si iscriverà al Pci e dirigerà a Firenze il quotidiano di sinistra Nuovo Corriere. Nel 1972, con il suo ultimo romanzo, Il bottone di Stalingrad­o, vinse il Premio Viareggio. Sul Corriere della Sera scrisse nel 1981 e nel 1989
 ??  ?? Una lite tra due bambini italiani del secolo scorso come quella raccontata da Romano Bilenchi nel racconto pubblicato 40 anni fa sulle pagine culturali del Corriere
Una lite tra due bambini italiani del secolo scorso come quella raccontata da Romano Bilenchi nel racconto pubblicato 40 anni fa sulle pagine culturali del Corriere

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