Corriere della Sera - Sette

Un muretto virtuale salverà i ragazzi, forse

- Di ANTONIO POLITO

che so, il calcio, il basket, un giro in bicicletta, una partita a Risiko o a Monopoli, ora erano legittimat­i dalle lunghe giornate di ozio in casa a indulgere nel loro passatempo preferito: starsene patologica­mente sdraiati sul divano, accartocci­ati intorno a uno schermo luminoso.

La crociata dei genitori, che ha richiesto uno sforzo almeno pari se non superiore all’assistenza domestica per la Dad, ha conosciuto fortune alterne. Qualche volta, grazie al nostro impegno e alla creatività, siamo riusciti a liberare nella loro giornata un paio d’ore per svaghi meno solipsisti­ci. Il più del tempo siamo stati invece costretti a soccombere dalla accanita resistenza incontrata sul campo. Poi però, a un certo punto, le cose sono cambiate.

Se infatti i primi mesi sono stati vissuti dai figli come una gigantesca vacanza, una rottura insperata e straordina­ria della routine, che li proiettava verso lo svago più insensato e futile (per il quale la Rete è un vero e proprio paese di Bengodi), un po’ alla volta ha prevalso un altro sentimento: la solitudine. E perciò quello stesso mezzo che era stato fino ad allora usato per starsene da soli in pace,

Come in ogni famiglia che si rispetti, anche nella nostra un anno fa è partita la guerra santa ai La clausura imposta dal Covid rischiava infatti di trasformar­e ciò che era già un’emergenza educativa, l’overdose di YouTube e Tik Tok, in un vero e proprio disastro psichiatri­co. Ragazzi pre-adolescent­i che prima almeno avevi qualche scusa per allontanar­li brevemente dallo smartphone,

senza obblighi familiari o scolastici, è diventato l’unico appiglio possibile per mantenere un rapporto con i coetanei, per frequentar­li, e si è aperto a un uso nuovo e se così si può dire più umano.

Non l’abbiamo capito subito. Ma la chiave è stata Houseparty, una app che permette a un gruppo di ragazzi di stare insieme a distanza, e di fare ciò che farebbero se si fossero davvero riuniti. Anzi: di stare insieme all’antica, con meno pericoli, non per strada o davanti a un fast food ma seduti a un tavolo in un luogo protetto, nel quale non può entrare nessuno che non conoscono e dove si finisce per giocare come facevamo noi un tempo. Abbiamo così scoperto che i venerdì pomeriggio li passavano a giocare a Trivial o a Uno, innocenti giochi da tavolo di altri tempi, o a Roblox, più recente videogioco di ruolo; e a chiacchier­are, naturalmen­te: l’unica cosa che davvero conti alla loro età. In sostanza è come una festa a casa (house party per l’appunto). E di questi tempi è balsamo per il precario stato mentale di adolescent­i e preadolesc­enti. Perfino la PlayStatio­n, con i suoi giochi di guerra, crea comunque delle chat in cui comunicano tra di loro (urlando per lo più); in fin dei conti non è peggio di un pomeriggio passato a bighellona­re sulla Rete.

Non sono sicuro che questa nostra scoperta non sia che un modo di razionaliz­zare una sconfitta: dai device non siamo riusciti a tenerli lontani. Ma se i ragazzi trovano sullo schermo un nuovo “muretto”, un luogo virtuale nel quale incontrars­i ora che non ce ne sono più di reali, Dio lo benedica.

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