La mascolinità in crisi e il fenomeno “incel”
«Più che per le ragazze sono preoccupata per gli adolescenti maschi. Sono frustrati, abbandonati a sé stessi». Molti degli esperti con cui abbiamo parlato per la nostra inchiesta hanno espresso preoccupazione per i ragazzi. L’allarme arriva soprattutto da Giulia Blasi, autrice di Manuale per ragazze rivoluzionarie e Rivoluzione Z (Rizzoli). Come fa notare la scrittrice, i problemi vengono in primis dai modelli di mascolinità della nostra società. Molti maschi non ricevono un’educazione sentimentale e dopo una certa età non gli viene più concesso di essere coccoloni. L’aggressività è la norma. «Tutto questo li danneggia e talvolta li porta a radicalizzarsi contro le donne, fino ad arrivare al fenomeno degli incel (involuntary celibates). Molti adolescenti sono terrorizzati dalle coetanee. Alcuni le aggrediscono nel tentativo di zittirle». Al tempo stesso, però, Blasi vede anche segnali positivi: «In assenza di luoghi dove mettersi in discussione, i ragazzi che abbracciano i femminismi sono sempre di più. C’è voglia di strappare il velo».
Caro, il ventuno aprile avresti compiuto 101 anni! Mi piacerebbe sapere la tua reazione in presenza di un ospite inimmaginabile. Corro da Olga ad avvisarla.
— Olga, Olga, ho appena saputo! Viene! Lui da me, sabato pomeriggio alle quattro. Non devo dirlo a nessuno, è un segreto. Ma come faccio? Sto scoppiando! Vorrei spifferarlo a tutti. Pensa, ha anche letto la lettera a Dio che è nel mio ultimo libro Il pane perduto e l’ha approvata, e ha deciso di venire da me, non io da Lui!
— Signora Edith, si calmi, non si agiti. Ma davvero!? Allora devo pulire le finestre, lavare le tende, e dolci, dolci, che prepariamo? — Non viene a guardare il panorama, le tende, o a mangiare dolci, che senso ha?
— Allora che facciamo?
— Niente, niente, non lo so. — Pensiamoci un momento, con calma.
— Il citofono, il citofono! Vai ad aprire. Sta arrivando Deborah. Glielo diciamo?
— Non possiamo non dirglielo. E anche Marco dovrebbe essere avvisato.
— Ma come, ho promesso di non dirlo a nessuno.
— Ma Deborah è la figlia della sua sorella più cara, con la quale
e incrociamo le nostre voci: che mi metto, si può stare in pantaloni, giù dall’armadio tutti i miei vestiti sul letto, cos’è più adatto per un’occasione così? E prove, prove sempre più infantili. Tra le risate nello specchio, ci vestiamo e ci spogliamo come tre bambine in attesa di un giocattolo sognato o di un principe azzurro. Se tu potessi verderci! Deborah si rigirava nelle mie cose fuori misura, Olga in quelle un po’ strette.
— Via, via, cose scollate no. Semplici, normali...
Monologhiamo come matte. E poi, come lo salutiamo? Olga si china verso una mano immaginaria.
Sabato 20 febbraio: nella casa romana della scrittrice Edith Bruck si presenta papa Francesco. Colpito dalla storia di sofferenza e coraggio della donna, sopravvissuta alla Shoah, il pontefice voleva conoscerla. In questo racconto Bruck, rivolgendosi idealmente al marito Nelo Risi scomparso nel 2015, racconta le ore concitate che precedettero quell’incontro E se non dà la mano per il virus? Viviamo come ai tempi della peste a Milano, ne hai fatto anche un film, ti ricordi? Io faccio un leggero inchino con la mano sul cuore, Deborah invece congiunge le mani all’orientale. Proviamo i nostri gesti nello specchio sempre più incredule, ridendo emozionate in un’atmosfera irreale, un po’ teatrale.
Dove si siederà? Ecco un’altra domanda. Nella tua poltrona dove ti ho tenuto la mano per oltre dieci anni, dove non si è più seduto nessuno dopo di te? No, no, affonderebbe, e poi come si rialza? Corriamo a mettere i cuscini sulla poltroncina antica che ho comprato con tua sorella Mirella, ma non dirle niente, è una gran chiacchierona. Forse meglio non farne cenno neanche a tuo fratello Dino, che ci raffredderebbe subito quest’attesa febbrile con una delle sue solite battute, e nemmeno a suo figlio Claudio, che abbiamo perso da poco, perché ci sarà Marco con noi e gli verrebbe un attacco di gelosia. Non dirlo neppure a tuo papà, che hai perso quando avevi nove anni, la stessa età che ci sentiamo noi adesso, come bambine che non sanno tenere i segreti. Forse l’unica a cui puoi dirlo è tua mamma, che ricordo severa aristocratica, di pochi gesti e parole; annotava Dante, traduceva Goethe e suonava il pianoforte con una tale delicatezza che sembrava avesse quasi paura di far male ai tasti.
E ripenso anche a mia madre, che vive nei miei libri, come mio padre e tutti i miei che non ci sono più. Oh, se questa visita fosse accaduta prima che bussassero con violenza alla nostra fragile porta, coloro che credevo amici e amiche non mi avrebbero poi
a dare la mia testimonianza, cosa che tu contrastavi spesso. «Quando imparerai a dir di no? Risparmiati», dicevi.
Non mi sono risparmiata e non mi risparmierò, non è tempo di tacere, neanche oggi perché la Storia è un boomerang, per noi che siamo sopravvissuti, ma anche per i tanti nuovi perseguitati, anche se per motivi diversi e non nella stessa misura. Ma ci riguarda tutto quello che accade. E chi parlerà per noi se non noi?
Il mio scarso futuro è ricco di passato, la mia memoria è fedele e non mi lascerà precipitare nel vuoto. L’immaginazione non mi manca né l’indignazione per ogni specie di razzismo, violenza, guerra nel nome di Dio, lo sai.
Fin da piccola ho imparato il no, da adulta il sì. Mi conosci, hai
È udito infinite volte il mio sì. E continuerò a dire di sì ogni qualvolta mi chiameranno a testimoniare e racconterò la mia storia a quei giovani che non sanno o che sanno poco e male. Il negazionismo, la mistificazione, l’appiattimento dell’accaduto è in crescita pericolosa. La rimozione continua in tutta Europa. Illuminare le giovani coscienze è un dovere morale per il loro futuro. Essere ascoltata più oggi che ieri mi ripaga dalla fatica e rafforza il senso della mia vita. Nelle loro numerose lettere ho trovato la conferma dell’utilità dei miei sì.
La copertina di di Edith Bruck (La nave di Teseo), fra i 12 finalisti al premio Strega. Edith Steinschreiber, in arte Bruck, è nata nel 1932 in un villaggio ungherese ai confini con la Slovacchia. Nella primavera del 1944 viene deportata ad Auschwitz e poi in altri campi di concentramento tedeschi fino a Bergen-Belsen, dove verrà liberata con la sorella nell’aprile del 1945
Sai questo segreto a chi lo direi tra la gente del mio piccolo villaggio, dove sei venuto anche tu e incredulo, sbalordito, mi avevi chiesto come ero riuscita a venir fuori da quel buco fangoso. Ti ricordi di Lidia, la nostra vicina di casa? No, non te la ricordi, lo so, io sì. È stata lei a regalarci la farina per quel pane perduto che mia madre invocava nel vagone piombato. Io non la dimenticherò mai, così come non dimenticherò quei cinque gesti nei campi nazisti, che io chiamo le cinque luci nel buio più profondo. Luci fioche, scarse, ma capaci di accendere una speranza interiore, forte.
Forse lo avrei detto anche a quel mio compagno di scuola con il quale leggevamo nel bosco poesie d’amore proibite. E come non dirlo al padre di quel ragazzo, amico di mio padre che, nonostante l’avversione verso noi ebrei, è rimasto tale (io lo chiamavo zio Gyula), che chissà come un giorno è apparso oltre il muro del ghetto gettandoci ogni ben di Dio: pane, patate, fagioli, burro, marmellata, vino, olio. Cadeva di tutto, anche le lacrime di mia madre gonfia di gratitudine e di mio padre, fiero di quell’amico coraggioso. Un amico cristiano, che dopo essersi segnato con la croce è sparito vergognandosi delle proprio lacrime, perché il pianto era roba da donne. Ma zio
Gyula è stato un Uomo, ed è un faro per me ancora oggi.
E come non correre a dirlo al mio buon maestro Bocsor Geza, ti ricordi quando mi ha dato la sua fotografia strappandola dalla propria carta d’identità per farmene regalo e scrivendoci sopra «alla migliore allieva che abbia mai avuto». E lui, che maestro, come dimenticarlo! E la maestra Klara? Quante volte mi ha premiato. Anche loro sono state cinque luci nella mia infanzia, in tempi indimenticabili. Oggi questi ignoti che continuano a vivere nella mia memoria dovrebbero essere nel giardino dei Giusti.
È il citofono! Devo lasciarti adesso. Ma quante cose vorrei dirti ancora, da quando non ci sei più… Getto uno sguardo rapido alle poche persone alle quali è
«Sai questo segreto a chi lo direi tra la gente del mio villaggio, dove sei venuto anche tu e incredulo mi avevi chiesto come ero riuscita a venir fuori da quel buco fangoso? Ti ricordi di Lidia, la nostra vicina? stata lei a regalarci la farina per quel pane perduto che mia madre invocava nel vagone piombato»
stato permesso di essere presenti, sono tutti in piedi, tesi, muti come soldatini sull’attenti: Deborah tutta vestita di blu, suo marito Lucio ha messo la cravatta, Marco invece è meno disinvolto del solito, mentre Olga controlla la tavola imbandita di dolci e Francesca Romana, causa ed effetto di questa visita, ha l’espressione più incredula. Io non lo so nemmeno come sto. Corro, corro, sono io che devo aprire la porta.
È qui! La sua figura bianca riempie il vano dell’ingresso e i miei occhi di lacrime...