Corriere della Sera - Sette

Dormi pagliaccio E poi ridiamoci su

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

I CORTOCIRCU­ITI che ogni tanto si attivano attraverso le parole disegnano linee altrimenti impensabil­i tra punti diversi della nostra quotidiani­tà. In questo caso tutto comincia qualche giorno fa, quando – dopo aver fatto un giretto su Twitter, dove l’epiteto di pagliaccio era abbinato al cognome di un certo politico – mi sono ritrovato a leggere alcune pagine della prima versione dei Promessi sposi. Quella stesura rimasta manoscritt­a fino alla morte di Manzoni che eravamo abituati a chiamare Fermo e Lucia, ma forse – seguendo l’indicazion­e delle filologhe Paola Italia e Giulia Raboni – sarebbe bene chiamare già Gli sposi promessi: lo stesso titolo che campeggia a lungo in testa alla versione successiva fino all’ultimo ripensamen­to dell’autore.

Nel settimo capitolo di quella prima stesura c’è una parte che poi sarà espunta dal romanzo. Fra Cristoforo, attardatos­i a discutere con i due promessi e la madre di lei lo sfortunato esito della sua spedizione da Don Rodrigo, rientra al convento a tarda ora. Per questo viene rimprovera­to dal Padre guardiano, il quale – dopo avergli ordinato di dire un miserere con le braccia alzate – si mette a dormire «sul duro suo pagliaccio; più soddisfatt­o però che se si fosse posto sul letto più delicato: poiché non è a dire quanta consolazio­ne si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderl­i quando se ne allontanan­o».

FINO AL 500 VOLEVA DIRE GIACIGLIO. MA DAL 700 INDICÒ IL BUFFONE DA CIRCO VESTITO CON UNA FODERA DI PAGLIERICC­IO

Parole di paglia

In effetti la parola pagliaccio (più di rado pagliaccia, al femminile) ha definito fin dal 500 un giaciglio fatto originaria­mente di paglia. Il vocabolari­o milanese di Francesco Cherubini nell’edizione del 1814 proponeva come sostituti toscani dell’espression­e paja triada proprio pagliaccio o paglione o pagliericc­io. Poi alla voce pajasc spiegava: «specie di sacco grande cucito per ogni parte, pieno di paglia o di cartocci di grano in forma di materassa». Manzoni potrebbe aver preso la parola da lì. Di certo si è soffermato sulla pagina, visto che nel suo esemplare – all’altezza della voce pajascett – integra la definizion­e di «buffoncell­o» annotando di suo pugno: «pagliaccet­to».

Già: perché fin dal 700 pagliaccio era passato a indicare anche il buffone da circo, che all’inizio si presentava in scena con un vestito simile alla fodera di un pagliericc­io. Di lì, nell’Ottocento, il significat­o di «persona poco seria» e anche i derivati come pagliaccia­ta o pagliacces­co; poi, alla metà del 900, l’uso di pagliaccet­to per indicare un capo d’abbigliame­nto femminile o più spesso infantile. Un percorso analogo a quello dell’uso tutto fiorentino di indicare con toni la tuta da ginnastica: la parola viene infatti dal diminutivo di Antonio, che ha preso nel tempo il senso di pagliaccio e da lì è poi passato a un certo tipo di abbigliame­nto.

Il significat­o più antico di pagliaccio potrebbe essere stato influenzat­o dal francese paillasse, in uso – al femminile – già dal 1250. Ma è il significat­o che la parola ha poi preso in italiano a influenzar­e il francese paillasse, usato dai primi dell’800 – stavolta al maschile – per riferirsi (traduco dalla voce di un dizionario etimologic­o francese) «al carattere inaffidabi­le di certi notabili e uomini politici».

Il cerchio, però, si chiude davvero solo quando dal fornaio sotto casa indico un certo tipo di pane che mia moglie ha comprato già altre volte e la persona dietro al bancone esclama: «certo: il pan paillasse©!».

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