Dormi pagliaccio E poi ridiamoci su
I CORTOCIRCUITI che ogni tanto si attivano attraverso le parole disegnano linee altrimenti impensabili tra punti diversi della nostra quotidianità. In questo caso tutto comincia qualche giorno fa, quando – dopo aver fatto un giretto su Twitter, dove l’epiteto di pagliaccio era abbinato al cognome di un certo politico – mi sono ritrovato a leggere alcune pagine della prima versione dei Promessi sposi. Quella stesura rimasta manoscritta fino alla morte di Manzoni che eravamo abituati a chiamare Fermo e Lucia, ma forse – seguendo l’indicazione delle filologhe Paola Italia e Giulia Raboni – sarebbe bene chiamare già Gli sposi promessi: lo stesso titolo che campeggia a lungo in testa alla versione successiva fino all’ultimo ripensamento dell’autore.
Nel settimo capitolo di quella prima stesura c’è una parte che poi sarà espunta dal romanzo. Fra Cristoforo, attardatosi a discutere con i due promessi e la madre di lei lo sfortunato esito della sua spedizione da Don Rodrigo, rientra al convento a tarda ora. Per questo viene rimproverato dal Padre guardiano, il quale – dopo avergli ordinato di dire un miserere con le braccia alzate – si mette a dormire «sul duro suo pagliaccio; più soddisfatto però che se si fosse posto sul letto più delicato: poiché non è a dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano».
FINO AL 500 VOLEVA DIRE GIACIGLIO. MA DAL 700 INDICÒ IL BUFFONE DA CIRCO VESTITO CON UNA FODERA DI PAGLIERICCIO
Parole di paglia
In effetti la parola pagliaccio (più di rado pagliaccia, al femminile) ha definito fin dal 500 un giaciglio fatto originariamente di paglia. Il vocabolario milanese di Francesco Cherubini nell’edizione del 1814 proponeva come sostituti toscani dell’espressione paja triada proprio pagliaccio o paglione o pagliericcio. Poi alla voce pajasc spiegava: «specie di sacco grande cucito per ogni parte, pieno di paglia o di cartocci di grano in forma di materassa». Manzoni potrebbe aver preso la parola da lì. Di certo si è soffermato sulla pagina, visto che nel suo esemplare – all’altezza della voce pajascett – integra la definizione di «buffoncello» annotando di suo pugno: «pagliaccetto».
Già: perché fin dal 700 pagliaccio era passato a indicare anche il buffone da circo, che all’inizio si presentava in scena con un vestito simile alla fodera di un pagliericcio. Di lì, nell’Ottocento, il significato di «persona poco seria» e anche i derivati come pagliacciata o pagliaccesco; poi, alla metà del 900, l’uso di pagliaccetto per indicare un capo d’abbigliamento femminile o più spesso infantile. Un percorso analogo a quello dell’uso tutto fiorentino di indicare con toni la tuta da ginnastica: la parola viene infatti dal diminutivo di Antonio, che ha preso nel tempo il senso di pagliaccio e da lì è poi passato a un certo tipo di abbigliamento.
Il significato più antico di pagliaccio potrebbe essere stato influenzato dal francese paillasse, in uso – al femminile – già dal 1250. Ma è il significato che la parola ha poi preso in italiano a influenzare il francese paillasse, usato dai primi dell’800 – stavolta al maschile – per riferirsi (traduco dalla voce di un dizionario etimologico francese) «al carattere inaffidabile di certi notabili e uomini politici».
Il cerchio, però, si chiude davvero solo quando dal fornaio sotto casa indico un certo tipo di pane che mia moglie ha comprato già altre volte e la persona dietro al bancone esclama: «certo: il pan paillasse©!».