MARINA «VOLEVO AVERE IL NASO DI BRIGITTE BARDOT: MI GETTAI CONTRO UNO SPIGOLO. ORA SONO COSÌ»
È di buon umore, Marina. Sta partendo per il Kerala dove l’aspettano cure ayurvediche per temprare anima e corpo. «Ho fatto entrambe le vaccinazioni e così viaggio sicura. Vado in India da molti anni. In questo mese di ritiro faccio tanta meditazione, importante preparazione per il mio lavoro». Si accarezza una lunga ciocca di capelli, neri corvini. «Non bisogna tagliarseli, sono la nostra forza». Ma il rapporto con essi non è stato sempre così idilliaco: in una celebre performance del 1975 Art Must Be Beautiful/ Artist Must Be Beautiful li torturava spazzolandoseli a sangue. Poi ci diede un taglio. Li vediamo corti in quell’altra sua opera del 1980, insieme al partner di allora, Ulay. In Rest Energy (scena estrapolata da That Self) lei e il suo uomo stavano una di fronte all’altro, con un arco teso e una freccia dritta al cuore di Marina. 4 minuti e 20 secondi di tensione al cardiopalma, per entrambi. Dopo tutto questo isolamento forzato sente l’urgenza di uno scambio simbolico di sguardi, di energia tra lei e il pubblico. Tornando alla performance. Ma ora abbiamo eventi live in streaming, webcasts, podcasts, la vita e l’arte ridotta a schermate. Il filosofo Emmanuel Lévinas sosteneva però che è nell’incontro faccia a faccia che l’etica viene distillata.
«Tutto ciò che a che vedere con la tecnologia può cambiare le relazioni umane. Quando tu muori, rimangono solo dei documenti, anche di questa realtà mista, e questo è meglio che non lasciare nulla. Ma io non faccio mai compromessi. E per me utilizzare Zoom o altri mezzi per realizzare una performance, non produce alcun risultato. Tutto è sempre di cattiva qualità: brutte immagini, cattivo suono, e manca immediatezza. Sto al computer il minor tempo possibile, non faccio mai più di tre Zoom al giorno, rispondo alle mail solo al mattino presto e poi basta. Perché non voglio che la tecnologia occupi ogni minuto della mia vita. Adesso leggo molti più libri, ascolto molta più musica. Vado in bicicletta lungo il fiume Hudson, faccio più cose che mi mettono in contatto con il mio sé, ora ho davvero molto più tempo, normalmente avrei preso tre aerei alla settimana».
Le nuove iperbole dell’arte, gli NFT (quasi commodity fetishims) che hanno mostrato tutto il loro poteziale economico, per lei sono sigle lontane anni luce. «Dieci anni fa mi hanno proposto investimenti in Bitcoin, ero in Australia e mi dissero di comprarli che avrei accumulato una fortuna. Per me erano qualcosa di troppo astratto, non ho alcun rapporto con questo tipo di cose, sono della vecchia scuola. Il vero problema è che si tratta di cattiva arte. Non ho visto niente di buono. È intrattenimento catatonico. Alcuni anni fa fui invitata nella Silicon Valley a tenere una lecture sul futuro dell’arte, e tutti quei miliardari davvero credono che Instagram sia quel futuro, ma io non