HAIKU «IO, NON MAMMA E POETESSA MINIMA, IN POCHE RIGHE FULMINO LA REALTÀ»
La non mamma ascolta le amiche raccontare di figli prodigio che guardano le serie tv tutte in inglese, arredano da soli le camerette, decidono se e quando sedersi a tavola per cena. E intanto fissa i “filamenti di bollicine” sul fondo del bicchiere di prosecco: «Una cellula si stacca dal gruppo, corre in alto con appesa la sua collanina dorata, supera le altre e raggiunge la schiuma per prendere aria, un’altra si fa largo sul bordo effervescente cercando posto, e infine, si lascia esplodere».
C’era bisogno di un libro come questo, più che mai nell’Italia familista del culto della mamma. E l’ha scritto Susanna Tartaro, curatrice del noto appuntamento radiofonico sui libri Fahrenheit, nonché responsabile dei programmi culturali di Radio3. Fresco di stampa per Einaudi, 7 l’ha letto in anteprima.
«Ero stanca di sentirmi dire: “tu non puoi capire, non hai figli’”» racconta l’autrice dallo studio di casa, la luce calante di Roma sul Villaggio Olimpico. «Ma perché non posso capire? È a questo che ho cercato di dar voce».
Annotato in anni recenti di peregrinazioni tra la città, la redazione, la propria camera da letto, gli appartamenti degli amici, le stanze di albergo, La non mamma è un collage lucido e poetico di haiku, non nel senso rigoroso dei tre versi giapponesi, ma per il dono della semplicità profonda.
Io, farfallina appesa al soffitto... Frammenti di vita quotidiana, qualche fotografia scattata con il cellulare, l’odore di un genitore scomparso, la delusione di un piccolo vicino di ombrellone che vorrebbe fare castelli d’acqua. «Mi sono concessa il massimo dell’egocentrismo», dice Tartaro, quasi scusandosi. Eppure ha scritto il diario che ci riguarda tutti, non genitori esclusi dai dibattiti sulla Dad, noncuranti delle pozzanghere lasciate dopo la doccia, insensibili ai capricci
queste spalle scoperte, quando i tuoi genitori hanno bisogno di cure e questo ruolo nel quale stavi poi bene — io sono stata una figlia fuori moda, mai avuto un problema — ecco quando questo ruolo così caldo finisce: non sei figlia però non sei madre. Immagino una me su un pallone di quelli da circo: sei un po’ in bilico, scomoda, con i tuoi sentimenti. E ti cerchi».
Figlia pacificata
Così apre la narrazione: «Sono una proiezione di me, sono il mio exit poll (…) Sono mia figlia e mia madre (…) mi educo e mi vizio». E quando Susanna s’imbatte in una «piccoletta» che gioca a fare la ruota, appunta: «Io ho smesso da un pezzo (…) sono le bambine di sette-otto anni a farle per me. Ma io potrei, ah se potrei, da non mamma sono facilitata, non ho nessuno avanti e nessuno alle mie spalle (…) Detto tutto questo, vorrei solo schiacciare un pisolino».
Non è un libro di giudizi o lagnanze, è attraversato anzi da una leggera ironia. «Vedo questi genitori trepidanti, frementi, ai quali ho sempre il timore di dire la cosa sbagliata. Concentrati sui i figli come se rappresentassero una sorta di riscatto. Quasi un’occasione
Susanna Tartaro, curatrice del programma radiofonico racconta di «essere stanca di sentirmi dire: “Tu non puoi capire, non hai figli”. Ma perché non posso capire?» Da lì nasce l’idea del libro collage lucido e sottile di haiku: non nel senso rigoroso dei tre versi giapponesi, ma per il dono della semplicità profonda
sociale, qualcosa che ti fa stare in un gruppo. E i bambini a loro volta mi sembrano avvolti da una cappa d’ansia. Sarà che io ho avuto genitori che di ansia non ne mettevano…».
Figlia pacificata, Susanna si guarda attorno con una nostalgia dolce di vecchie pasticcerie, tazze scompaginate, donne bistrate in film in bianco e nero, gomme da cancellare vinte a una festa di compleanno. «Uno si porta appresso gli occhi di quando è ragazzino. Dicono che gli occhi siano l’unica cosa che rimane uguale sul nostro viso. Vado cercando tracce tipo rabdomante, la scritta cadente di un negozio mi fa “casetta”. Ma è anche un modo per scherzarci su. Fa parte di quelle preghiere laiche per
andare avanti. Porto in giro tutti i miei morti e il mio zaino con l’esperienza…».
Cercando su altre teste anziane la coppola che avrebbe potuto portare il padre Achille, l’autrice finisce per fare incontri imprevisti: «Quella coppola non è di tuo padre, ma ti fa conoscere altre cose. Tu sugli altri ti soffermi se riesci a fermarti da te stesso, da quello che sei. Io sono curiosa, mi piace entrare in sintonia. Al bar, sull’autobus, in ufficio: basta avvicinarsi in un modo diverso alle persone e ne scopri degli aspetti inediti».
Gli haiku diventano allora la forma ideale di questa “poetessa minima”, come si definisce, per la capacità di distillare e sorprendere: «Si tratta alla fine di un racconto breve, con un grande colpo di scena finale. Perché la vita è questa». Tartaro li ha letti e anche tradotti (dall’inglese) nella loro struttura originaria giapponese — tre versi, 17 more — e poi ne ha fatto un esercizio quasi quotidiano nel suo blog Daily Haiku. «È una palestra di scrittura in sottrazione. Una cosa piccola, ma molto nutriente. Pubblico una notizia che mi colpisce, la introduco attraverso una poesia che scelgo. Infine metto due righe e una foto fatta da me. In tre momenti, come l’haiku. È un modo per leggere la mia giornata, ma in Rete sono molto pudica. Nel libro c’è molto più di me».
Roma cangiante
Resta, però, l’invito a “partecipare”: «La poesia mette in luce alcune cose, altre le lascia in ombra e lascia al lettore la conoscenza di quello che c’è negli spazi bianchi.
Parcheggio
e io ci litigavamo all’inverso il ruolo di accompagnatore: «Vai tu». «No, questa volta vacci tu». Viaggiavamo da una parte all’altra della città, per parchi in primavera, per capannoni con i gonfiabili o salette di circoli in inverno. Il dispiacere per un regalo doppio, le ore a piluccare pizzette, tartine, focacce. Mi sono sempre sentita inadeguata alle feste, finché non è scoppiata la pandemia.