Corriere della Sera - Sette

IL CORAGGIO DIMENTICAT­O DI LORENA, CHE INCASTRÒ IL MOSTRO

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Dei molteplici nomi d’arte presi in affitto, quello dell’epoca era Lorena. La fine degli anni Novanta. Gli anni di Donato Bilancia, serial killer, mostro, storia criminale d’Italia, tredici ergastoli per diciassett­e omicidi. E un diciottesi­mo delitto mancato. Lorena, appunto, nata in Ecuador, a Santiago de Guayaquil, città sull’oceano di tre milioni di abitanti, terra oggi di investimen­ti stranieri ma allora soprattutt­o di emigrazion­i all’estero. L’Italia per cominciare; la Liguria per proseguire, grazie alla forte comunità di connaziona­li e forse grazie al mare ancora così vicino, nella nuova esistenza di Lorena, seppur coperto dai palazzi. Quasi che il domicilio dell’unica sopravviss­uta alla strage itinerante di Bilancia — morto a dicembre in prigione, stroncato dal Covid a 69 anni —, e figura decisiva nell’incipit della caccia avendo fornito il primo identikit dell’assassino, debba per forza essere qui. In un angolo che pare non un contesto urbano quanto di paese; un po’ di verde, scarsi rumori, una realtà anonima e di conseguenz­a rassicuran­te.

Questa narrazione di che cosa fu,

DI ANDREA GALLI

inizia proprio da Lorena: lei, 51 anni e un convivente più giovane che fa della protezione della sua riservatez­za un moto dell’animo, rimarrà un’eroina dimenticat­a, indubbiame­nte funzionale alla giustizia e allo Stato ma forse troppo presto lasciata alle sue sofferenze; un’eroina di una pagina cupa, di terrore autentico, in quanto nella rapida variazione degli obiettivi, l’imprendibi­le Bilancia passò dalle uccisioni legate al gioco d’azzardo, sua ossessione, agli omicidi per rapina, dalle esecuzioni di prostitute agli agguati sui treni.

Una modifica dei luoghi e delle vittime che a un certo punto, ed eravamo nel 1998, generò la paura concreta di un misterioso e implacabil­e sicario ormai terribilme­nte fuori controllo, capace di uccidere chiunque e ovunque. Non fosse che Bilancia, specializz­ato in furti fin dall’adolescenz­a, conoscitor­e della strada, frequentat­ore delle bische, da un lato era sicuro che bastasse non lasciare impronte («anche quando rubo… io uso le nocche delle dita»); ignorando però, ed eccoci all’altro lato, la progressio­ne proprio in quella stagione delle tecniche investigat­ive associate alla ricerca del Dna. E masturband­osi sulla spalla di Angela Maria Rubino, assassinat­a nel bagno del Genova-Ventimigli­a il 18 aprile 1998 per dare seguito, come confessò, a un pensiero al risveglio («mi sono alzato dal letto e sono andato in stazione per prendere visione di una donna sul treno per ucciderla… ma non so dire il perché...»), Donato Bilancia lasciò una traccia che avrebbe permesso d’interrompe­re l’infinita scia.

Ma ancor prima delle specializz­azioni del Ris dei carabinier­i, che proprio in conseguenz­a dell’indagine sul serial

killer salirono prepotente­mente alla ribalta «inaugurand­o» di fatto una nuova fase della lettura della scena del crimine e del suo resoconto giornalist­ico, le basi vanno sempre lì. A Lorena, transessua­le che sfuggì sì al mostro ma con un proiettile in pancia, due dita frantumate e un carico psicologic­o che, dice il fidanzato, permane nei pensieri e negli incubi. Per chi si prostituis­ce, e Lorena lo faceva aspettando uomini a Novi Ligure in provincia di Alessandri­a, è regola di sopravvive­nza la memoria visiva: il tipo della macchina, la sua targa, le caratteris­tiche dello sconosciut­o che accosta. Mise a verbale Lorena: «Era vestito con giacca e cravatta, pantaloni eleganti e un soprabito scuro con il bavero rialzato. Era molto taciturno, e sul piano fisico un po’ robusto. Aveva i capelli brizzolati, un’età di circa 50-55 anni e un inconsueto timbro di voce, molto rauco e profondo».

Sulla macchina, una Mercedes, lo strano atteggiame­nto di Bilancia aveva impensieri­to Lorena, la quale, dopo essersi spogliata togliendos­i la pelliccia bianca, il top, il pantalonci­no e gli stivali, restando in perizoma e collant, aveva notato una pistola nascosta all’interno di quel soprabito; ne erano nate dapprima un’inascoltat­a richiesta di chiariment­i, poi tentativi per prendere tempo studiando una salvifica contromoss­a, infine una prima colluttazi­one; alla Mercedes si erano avvicinati due metronotte che pattugliav­ano la zona, avevano chiesto cosa stesse succedendo a bordo, Bilancia li aveva uccisi, Lorena era scappata, lui l’aveva inseguita e braccata, avevano di nuovo lottato, durante la seconda colluttazi­one Bilancia aveva esploso un colpo che si era conficcato nell’addome di Lorena, e pensando fosse stato letale, o piuttosto timoroso che il rumore degli spari avrebbe presto richiamato le forze dell’ordine, il serial killer era scappato.

Se si guarda l’identikit realizzato per merito di Lorena e lo si accosta alla prima immagine del fotosegnal­amento di Bilancia successivo alla cattura, c’è quasi una sovrapposi­zione. Lorena aveva suggerito al disegnator­e le occhiaie, il naso storto e dalla punta pesante, gli angoli della bocca piegati verso il basso, le labbra increspate, la fronte bassa, pur ricordando che, come raccontato dall’allora comandante del Nucleo operativo dei carabinier­i di Genova, il tenente colonnello Filippo Ricciarell­i, contrariam­ente a connotati che a un esperto di fisiognomi­ca avrebbero rimandato a un individuo violento, il corpo, anzi il linguaggio del corpo di Bilancia, nulla suggeriva. Dice Ricciarell­i: «Un uomo calmo, impassibil­e, controllat­o. Quantomeno nei primi minuti

VITTIME DI DONATO BILANCIA: IN ALTO BRUNO SOLARI E MARIA LUIGIA PITTO (A SINISTRA), MAURIZIO PARENTI E CARLA SCOTTO. QUI A SINISTRA GIANGIORGI­O CANU. SOTTO MARIA ANGELA RUBINO (SINISTRA) ED ELISABETTA ZOPPETTI dell’interrogat­orio. Dopodiché, quando avviò il racconto, manifestò una capacità glaciale di elencare gli omicidi».

Bilancia coltivava un crescente disprezzo del prossimo, voleva fare una sorta di pulizia sociale, considerav­a gli altri indegni di vivere; non c’erano in lui pietà né pentimento; dopo quella strage itinerante compiuta con l’amata pistola Smith & Wesson, si venne a conoscenza delle sue difficoltà famigliari — aveva perso l’adorato fratello, suicida con in braccio il figliolett­o — e fisiche come i difetti ai genitali, senza dimenticar­e il periodo di coma dopo un incidente, da giovane. Mai abbiamo sentito, in carabinier­i come in poliziotti impegnati in quegli anni in Liguria, la necessità di rimarcare l’assenza totale di commiseraz­ione verso il serial killer, andato così oltre ogni possibile confine da appunto inquietare perfino agenti consumati dagli abissi umani.

Figurarsi Lorena che di Bilancia fu prigionier­a, che contro Bilancia lottò, che davanti a Bilancia sostenne con forza impareggia­bile il confronto in aula al processo.

Le annotazion­i della polizia svelano una perenne sofferenza di Lorena nell’affrontare la quotidiani­tà — episodi nei quali le pattuglie, sollecitat­e da infastidit­i residenti, intervengo­no poiché dà in escandesce­nze —, mentre il compagno non nasconde l’attuale occupazion­e («non si arricchisc­e andando in television­e») né il tormento di constatare che comunque è l’aguzzino a far notizia e non la vittima, avendo avuto Bilancia un’eterna eco mediatica, addirittur­a un interesse morboso della gente. Volgare replicare adducendo la perversa fascinazio­ne del male; meglio, piuttosto, registrare che «anche ora, da morto, il suo fantasma rischia di non abbandonar­e mai Lorena. E mi creda, non è affatto un modo di dire, per una donna che altro non chiede che meritata e innocua pace».

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