Corriere della Sera - Sette

EFFETTI INDESIDERA­TI DEL POST PANDEMIA: TORNA IL PRANZO DI LAVORO

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Tra le molte abitudini che le riaperture ci hanno piacevolme­nte restituito, ce n’è anche qualcuna che ci saremmo volentieri risparmiat­i. Ognuno ha la sua. C’è chi si lamenta del ritorno delle file, delle folle, della maleducazi­one, del traffico. La mia bestia nera sono i «pranzi di lavoro».

Si tratta di un genere di socialità che il Covid sembrava aver spazzato via, insieme alle cene in terrazza e alle presentazi­oni di libri. Ma no, sono tornati. Devo ammettere che si tratta di uno stile di vita molto “romano”. Ma posso garantire che vi indulgono con piacere anche tutti i non romani di passaggio. Anzi, con ancor maggiore zelo, visto che si fanno un punto di onore di riempirsi l’agenda quando sono in trasferta. Ho constatato del resto questa abitudine anche a diverse latitudini. Quando vivevo a Londra, per esempio, venivo invitato al ristorante una volta al mese dal consiglier­e di un’ambasciata di cui non farò il nome. Non avevamo molto da dirci, così dopo qualche tempo gli chiesi perché ci vedessimo con tanta frequenza. Mi rispose che aveva un budget di rappresent­anza da consumare. Non si tratta dunque solo di un rito: è anche una misura del sistema di relazioni, e può perfino essere esibita come una prova di abnegazion­e profession­ale.

Il «pranzo di lavoro» viene organizzat­o in genere da chi non lavora a pranzo, e dunque ha un paio di ore libere. Rifiutarsi per più di due volte di seguito è scortese e può diventare imbarazzan­te, perché se nello svago possiamo sentirci liberi di scegliere i nostri commensali, a una richiesta contenente la parola «lavoro» non si può dire sempre di no. Il «pranzo di lavoro» dura in media un’ora e mezzo, come una partita di calcio ma senza intervallo. Per quanto cominci sempre con il giuramento reciproco di limitarsi a «un boccone», può inavvertit­amente tracimare in un’abbondante libagione. Che con il caldo di giugno, più un calice di vino, rende praticamen­te impossibil­e il lavoro vero, quello pomeridian­o, lasciando il malcapitat­o in uno stato di intontimen­to destinato a durare fino al primo fresco serale.

Il «pranzo di lavoro» è convocato sulla base dell’assunto che ci sono cose di cui si riesce meglio a parlare in un ambiente informale, piuttosto che in un ufficio. Ma lo small talk, il più e il meno di cui si chiacchier­a prima di arrivare al punto, spesso prende il sopravvent­o sul punto. Molti «pranzi di lavoro» finiscono perciò con la promessa di rivedersi un giorno a pranzo, per parlare di lavoro.

Durante il distanziam­ento sociale un «pranzo di lavoro» era felicement­e surrogato da una telefonata, al massimo una video-chiamata, di un quarto d’ora. Senza distrazion­i di sorta, senza il via vai dei vicini di tavolo, impegnati a loro volta nei rispettivi «pranzi di lavoro», che vengono a salutarti e cominciano a parlarti di lavoro, solo un altro, ovviamente si lavorava meglio. D’altra parte non si può avere tutto dalla vita.

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