LO SCRITTORE E LA FLUIDITÀ MAI DICHIARATA IN PUBBLICO «MARY AMA CHE IO SIA UNA DELLE SUE RAGAZZE»
Tra le centinaia di fotografie mostrate in Hemingway, il monumentale documentario diretto da Ken Burns e Lynn Novick per la Pbs, la tv pubblica americana, ce n’è una in particolare che rompe ogni regola. Mostra lo scrittore, ormai quasi cinquantenne, seduto su una sedia nel giardino della sua Finca Vigia a Cuba con i capelli tinti di biondo platino, uguali a quelli della quarta moglie Mary Welsh. Anche ne Il giardino dell’Eden, libro scritto tra il 1946 e il 1961 ma uscito postumo e incompleto nel 1986, succede qualcosa di simile: lo scrittore David, in luna di miele in Costa Azzurra con la moglie Catherine, la accompagna dal parrucchiere e si fa tagliare e decolorare i capelli come lei. La sera, nel guardarsi allo specchio, David vede che
DI JENNIFER GUERRA
è diventato qualcun altro pur sentendosi meno estraneo a sé di prima. Ancora, nel suo famoso mémoire parigino Festa Mobile, anch’esso pubblicato postumo nel 1964, c’è un intero capitolo dedicato al «piacere segreto» che Hemingway prova nel farsi crescere i capelli della stessa lunghezza di quelli della moglie Hadley.
La messa in onda del documentario di Burns e Novick, una produzione prestigiosa che vede tra le altre le voci narranti di Jeff Daniels nei panni dello scrittore e di Meryl Streep in quelli di Martha Gellhorn, ha riacceso negli Stati Uniti un grande interesse per Ernest Hemingway. Non solo perché lo scrittore, premio Nobel per la Letteratura nel 1954, è un gigante della letteratura americana, ma anche perché la sua vita e i suoi libri pongono non pochi problemi alla prova dei cambiamenti
sociali in corso. È difficile conciliare con la sensibilità attuale un uomo che non nascondeva il suo disprezzo per donne, omosessuali, lesbiche, che usava con disinvoltura la n-word (insulto razzista) e indugiava su qualche stereotipo antisemita. Ma il film affronta di petto questi temi senza cadere nella semplificazione del “bisogna separare l’uomo dall’artista”. Al contrario, tiene i due aspetti vicinissimi, insistendo sulla sovrapposizione che Hemingway stesso orchestrò con abilità lungo tutta la sua esistenza.
E, soprattutto, esplora un aspetto particolare e forse inaspettato per il grande pubblico: la sua identità di genere. Tutti lo ricordano per il suo machismo esasperato: Hemingway il soldato valoroso, il torero mancato, il donnaiolo che si sposò ben quattro volte, l’attaccabrighe che faceva a botte con chiunque non gli andasse a genio, il cacciatore di grandi leoni, il pescatore di squali. Guardando le sei ore di docuserie questa immagine granitica pian piano di sgretola, rivelandosi in tutta la sua artificiosità. Perché Hemingway era senz’altro tutte queste cose, con abnegazione e teatralità, ma era anche tante altre: un uomo tormentato e traumatizzato, con il corpo e la mente devastati da continui incidenti e malattie (ebbe nove traumi cranici in 62 anni di vita) e, sostiene il documentario, forse anche un maschio infelice di essere maschio.
Gli autori hanno infatti accettato un’ipotesi che si è fatta strada nella critica hemingwayana a partire dagli anni Novanta: nelle opere dell’autore, così come nella sua vita privata, c’è un elemento di androginia che continua a tornare. Il già citato Giardino dell’Eden è il libro che più avvalla questa ipotesi: lo scambio dei ruoli tra moglie e marito non rimane confinato al taglio di capelli, ma diviene totale. David diventa Catherine, si fa chiamare “ragazza” e parla di sé al femminile, mentre Catherine si mascolinizza, indossando i pantaloni – cosa non scontata negli anni Venti – ricoprendo un ruolo attivo negli incontri sessuali e seducendo un’altra donna. Più in generale, l’abbandono totale che i protagonisti dei romanzi e racconti di Hemingway provano nei confronti delle donne che amano si trasforma nel desiderio di essere come loro, se non di essere loro.
La pubblicazione del Giardino dell’Eden e la sua insistenza sullo scambio dei ruoli sessuali, avvenuta per altro nel momento di massima diffusione ed espansione degli studi di genere, è stata uno spartiacque nella critica hemingwayana. Hemingway, da autore machista per eccellenza, con questo libro tenuto segreto e ritenuto da lui stesso impubblicabile, si rivelò all’improvviso molto più ambiguo – oggi si direbbe fluido – di quanto tutti pensassero. Dietro la stazza imponente, la barba lunga, gli amori difficili pareva esserci un desiderio indicibile e all’apparenza inspiegabile: quello di essere una femmina.
Nel giro di pochi anni, critici e studiosi si sono affannati per cercare una risposta alla domanda posta da Il giardino dell’Eden: un’influente biografia di Hemingway del 1987 sosteneva che i problemi dello scrittore con la sua identità di genere derivassero tutti dalla madre, donna dispotica e indipendente con cui lo scrittore ebbe un pessimo rapporto, e che lo vestiva spesso da femmina quando era bambino; un altro studio ha invece scavato nelle lettere e nell’autobiografia dell’ultima moglie Mary Welsh, scoprendo che più volte Hemingway aveva espresso il desiderio di essere una donna, di farsi chiamare Catherine e che Mary diventasse «l’uomo» della relazione. Altri critici si sono spinti più in là: Hemingway era transgender, come suo figlio Gregory? Era un feticista? Si vestiva segretamente da femmina? Soffriva di disforia di genere, cioè che non si riconosceva nel sesso assegnato alla nascita?
Il critico Mark Spilka ha racchiuso queste ipotesi nella formula della «ferita androgina». Una rottura nel corpo che diventa una rottura nell’anima, come quella che lo stesso scrittore si procurò sul fronte italiano della Prima guerra mondiale, qualche giorno prima di compiere 19 anni. In anni più recenti, la studiosa Valerie Rohy ha obiettato che le interpretazioni di Hemingway come autore trans siano non solo problematiche e sensazionalistiche, ma anche irrispettose di chi transgender lo è davvero. E soprattutto che Hemingway non era tormentato da questa sua androginia, ma anzi sembrava accoglierla come una parte del tutto normale
di sé: «Lei ha sempre voluto essere un ragazzo e pensa come un ragazzo senza mai perdere la sua femminilità,» scrisse a proposito di Mary, in una nota del diario di lei che sarà pubblicato nel volume How it was. «Lei ama che io sia una delle sue ragazze, e anche io lo amo, non essendo affatto stupido. E non sono mai stato così felice».
Cercare di stabilire dall’esterno e a distanza di anni cosa Hemingway provasse nei confronti del suo corpo è un esercizio inutile, così come tentare di dare una spiegazione razionale a questo sentire, tantomeno trovarvi una causa originaria. Quel che è certo è che per tutta la sua vita Hemingway ha costruito intorno a sé una corazza di mascolinità esasperata che indossava soltanto in pubblico, come sentendosi in dovere di dimostrare sempre il suo essere inequivocabilmente maschio. Persino attraverso la scrittura, per la quale molti critici hanno usato aggettivi come “virile” o “mascolina” per la sua essenzialità e assenza di fronzoli. Il trucco è riuscito talmente bene che per decenni in pochi si sono accorti dell’esistenza di un altro e più autentico Hemingway, liberato solo nel contesto privato delle sue caotiche relazioni familiari, ma già evidente con chiarezza nei suoi libri.
Libri che hanno al centro l’esperienza umana della scoperta di sé e del mondo attraverso l’amore e l’intimità in ogni sua forma. Il documentario di Ken Burns sembra suggerire che il coraggio, tema centrale nella produzione di Hemingway, stia proprio nella capacità di nascondersi e svelarsi solo a chi ha la capacità di vedere chi si nasconde dietro la maschera, di sfondare la corazza.
La grande autrice americana Joan Didion, analizzando un paragrafo di Addio alle armi in un articolo sul New Yorker scrisse: «Il potere [della sua scrittura], mentre offre come al solito l’illusione ma non il fatto specifico, deriva precisamente da questa sorta di omissione deliberata, dalla tensione di un’informazione trattenuta. Nella tarda estate di quale anno? Quale fiume, quali montagne, quali truppe?». E ciò che la rende così speciale è proprio che Hemingway non ce l’ha mai voluto dire.
Per me Jean-Paul Sartre non è mai diventato “un cane morto” e sono felice che si stia finalmente cominciando a rivedere questo giudizio affrettato e ad accorgersi che ciò che il filosofo francese ha detto non è acqua passata da lasciare alle spalle. L’abbiamo relegato nel frettoloso contenitore di un esistenzialismo prêt-à-porter, versioni ultra-umanistiche e banalizzanti sulle quali Sartre avrebbe speso un sorriso di disgusto.
Sartre è un pensatore più che vivo poiché ci addita uno scenario che tocca il nostro futuro e può correggere i vizi mentali dell’attuale presente. Qual è il punto? che la libertà non può che essere un mix tra luci e ombre, dove la parte di ombra è decisiva per poter vivere la libertà positivamente senza farla diventare subito una bandiera appariscente, retorica e perfino dannosa: un’illusione che ci arresta, anzi ci fa arretrare, mentre soprattutto adesso, nei tempi tristi di cui la pandemia è un sintomo macroscopico, avremmo bisogno di sbloccarci armandoci di un pensiero che ci indirizzi tutti, giovani e meno giovani, verso un domani praticabile.
Proviamo a leggere così l’impegno
Èfilosofico di Sartre, cominciando dalle pagine della Nausea, passando per le grandi opere di meditazione, L’essere e il nulla e la Critica della ragione dialettica, non trascurando i testi biografici come l’attraversamento della vita di Flaubert consegnato ai volumi dell’Idiota della famiglia, magari indugiando su quella preziosa parentesi autobiografica intitolata Le parole. Ci accorgeremo che non è possibile né utile spezzare questo impegno filosofico in fasi storicamente definibili e progressive: certo, sviluppi sono avvenuti, collegabili agli eventi della storia del secondo Novecento e alle politiche che hanno innestato. Oggi, però, è opportuno riconoscere che il messaggio che Sartre ci invia ha un impianto unitario e che quella idea di “scacco” rispetto al “desiderio di essere” che troviamo nei testi del primo periodo — saggistici, narrativi e teatrali — non scompare nel Sartre che critica la ragione dialettica e si confronta con l’oggettivazione del marxismo, ragionando sul rischio involutivo presente in ogni rivoluzione sociale.
Se il lettore di queste righe mi permette un inciso personale, la mia formazione fenomenologica, e il successivo impegno nella pratica di un pensiero critico
TRE TESTI
PER RISCOPRIRE IL PENSIERO DI SARTRE. IL SAGGIO DI MASSIMO RECALCATI
(EINAUDI)
E DUE VOLUMI DEL FILOSOFO:
(EINAUDI)
(IL SAGGIATORE)
che ho chiamato “debole”, può sembrare che lascino a Sartre un interesse secondario: non è così e non solo per il fatto che ho dedicato a Sartre la mia prima pubblicazione in forma di libro (nel 1969), ma poi perché i temi sartriani hanno avuto di continuo una grande attenzione nel corso del mio lavoro (compreso il teatro, per esempio la pièce Il diavolo e il buon dio che ho sempre avuto in mente). Il mio stesso maestro, Enzo Paci, faceva costantemente i conti con Sartre, con un insieme di amore e odio nel quale comunque prevaleva la prossimità amorosa. Se poi guardiamo alla vicenda della rivista aut aut (che ebbi la fortuna di ereditare dal suo fondatore), a più riprese abbiamo dedicato a Sartre fascicoli monografici e inoltre un esponente significativo del nostro collettivo (mi riferisco a Raoul Kirchmayr) è a tutt’oggi un sartriano doc.
Quando, nello scorso febbraio, lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati ha pubblicato (presso Einaudi) il suo Ritorno a Jean-Paul Sartre, l’ho letto traendone grande piacere perché il saggio va proprio nella direzione che ho appena indicato: non un semplice “ritorno” ma una complessiva rilettura (a partire dai volumi della biografia su Flaubert), che accentua il tema della “zona opaca” e dell’esigenza di quel “piccolo scarto” che è sempre necessario nelle nostre vite per poterle soggettivare e farne tesoro. Questo vale per Flaubert bambino che si viene a trovare nella posizione dell’“idiota”, così come valeva per la vicenda Genet che si porterà addosso fin dall’inizio l’etichetta di “ladro”.
Oggi, intorno a noi, viene ripetuta la parola “resilienza”, il cui significato meno superficiale potrebbe entrare in risonanza con l’esperienza dello scarto teorizzata da Sartre: osservo che secondo lui non è solo la scrittura letteraria (o comunque l’esperienza dello scrivere) che permette di far girare il senso dell’esistenza, basta pensare a quanto dice di sé nelle Parole dove il problema sembra piuttosto il contrario, cioè riuscire a saltare a lato proprio rispetto a una “alienazione” nelle parole.