PICCOLE COSE BUONE QUALCUNO HA GIÀ VINTO GLI EUROPEI
Igiocatori della Danimarca sono schierati in circolo. Guardano fuori, alcuni pregano, altri piangono, uno tuffa la faccia nella maglia tirata fin sopra la testa, quasi tutti guardano nel vuoto di uno stadio che sembra ondeggiare, slabbrarsi nell’angoscia. Il pieno assoluto è nel frammento di campo alle loro spalle: in quello spazio, protetto dai corpi degli altri, Christian Eriksen è entrato nell’anticamera della morte. Una manciata di minuti prima, incalcolabile nella percezione rallentata, il capitano Simon Kjaer ha visto il numero 10 inciampare in qualcosa di invisibile, qualcosa che era dentro, e poi cadere: subito si è inginocchiato accanto a lui, gli ha spostato la lingua per liberare le vie respiratorie, ha chiamato i soccorsi. Ha chiamato anche i compagni, è lui che li ha fatti schierare lungo quell’ellissi perfetta. La regia televisiva allontana il suo occhio che è il nostro. Noi non vediamo, siamo lì, dentro. I medici praticano il massaggio a un cuore che si è fermato, poi applicano il defibrillatore. Fuori, seguiamo l’allenatore danese in camicia bianca che si allontana. Quasi corre in direzione opposta, parla al telefonino. Uno stacco ed ora è la compagna di Christian Eriksen ad avanzare, è scesa dalle tribune. I capelli lunghi sciolti, i jeans e una maglietta rossa numero 10: così semplice da sembrare una delle nostre ragazze quando le vediamo uscire di casa, presto al mattino, per andare a scuola.
Una fotografia resterà nella storia degli Europei 2021: l’ha scattata un inviato della France Presse .Nonè quella di chi avrà vinto e alzerà la coppa. Si vede Eriksen che guarda stravolto nell’obiettivo, il polpastrello del dito indice sollevato e stretto nella morsa del saturimetro che gli prende le pulsazioni. Il cuore batte. Lo portano via protetto da due teli bianchi come ali, adesso bisogna volare in ospedale. La partita – Danimarca-Finlandia – riprenderà. Spiegheranno che è stato Chris a chiederlo ai compagni. La Danimarca perderà, sbaglierà un rigore. La Finlandia non esulta al goal “decisivo”. Perché decisivo, di più, è quello che succede prima allo stadio: due cori dividono gli spalti. Una metà grida: Christian. L’altra: Eriksen. Il capitano Kjaer chiede presto di essere sostituito.
Non ci sono eroi in questa storia europea, né super uomini. Non ci sono figure come quella del medico nella Peste di Camus che ogni giorno va a curare pazienti senza speranza in una comunità chiusa e abbandonata al virus. Il cerchio di quei giocatori ricorda – e riaccende – le candeline che non troveranno posto sulla torta attorno alla quale ruota uno dei racconti più belli di Raymond Carver, A Small Good Thing. È possibile fare una piccola buona cosa, fare in sequenza la cosa giusta. Il capitano, i medici, i compagni, il regista tv, l’allenatore, la compagna, lo stadio, i social – quelli dell’Inter e del Milan che per una volta si confondono.
Nella tempesta perfetta che ci ha colpiti, e in parte travolti in questi mesi pandemici, possiamo scavare un luogo di civiltà minima. E lì ritrovarci. Carver non punta mai alla celebrazione di atti straordinari, né all’affermazione di valori sovrastanti. Ma crede, e descrive nel suo stile spartano, la chance che abbiamo tutte e tutti di provare compassione in passaggi esistenziali stretti, sottilissimi e tuttavia abbastanza profondi per gettare la nostra ancora e tentare così una vita che abbia senso. Un senso inevitabile assieme agli altri: oltre il dolore, la frustrazione, la minaccia dell’assurdo.