Corriere della Sera - Sette

CHARLIE M. E LA SUA «FAMILY»: L’AGOSTO INFERNALE DEL ‘69

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passato la maggior parte della vita in riformator­io o in carcere, un cantante e compositor­e fallito che ripeteva ai compagni di cella che avrebbe potuto diventare più grande dei Beatles, se soltanto l’invidia della gente dello spettacolo non glielo avesse impedito. Charles Milles Manson, nato il 12 novembre 1934 in Ohio, figlio illegittim­o di un truffatore del Kentucky che non conobbe mai e di una sedicenne (che diventò ladra e alcolizzat­a, dentro e fuori dal carcere). E poi Charlie monello criminale, che a nove anni incendiò la scuola, e che prima della maggiore età aveva già una fedina penale impression­ante, da predestina­to.

L’uomo dei delitti Tate-LaBianca – anche se Manson non accoltellò nessuno: mandò a eseguire le stragi gli sbandati della sua “famiglia” di hippie facendoli pure tornare a casa in autostop perché si divertiva così – voleva scatenare una guerra

civile. Bianchi contro neri. E per questo cercò di incolpare le Pantere Nere con quelle scritte al sangue. L’idea era quella di organizzar­e stragi di ricchi, fingendo che fossero stati dei neri, scatenando spedizioni punitive dei bianchi nei ghetti dei neri, e innescando così l’apocalisse.

Non diavolo ma “guru” di un ranch diroccato fuori Los Angeles, profeta di una sciamannat­a “famiglia” di sbandati, ex-galeotto che cercava di frequentar­e la gente famosa e riuscì anche a vivere a scrocco del poco lucido Dennis Wilson dei Beach Boys, dal quale cercò di ottenere un contratto discografi­co (un altro malconsigl­iato famoso, Axl Rose, fece nel 1993 una cover di una canzone di Manson, Look at Your Game, Girl ,e fu costretto a donare le royalties di Manson al figlio di Voytek Frykowski, una delle vittime). Due stragi di violenza selvaggia, spaventosa (la pentita della “Family” Linda Kasabian, autista dei killer in quelle due notti d’estate e testimone d’accusa che li fece condannare in cambio dell’immunità, spiegò al processo che non avrebbe potuto uccidere nessuno «perché non ho dentro di me la loro bestialità»). Nel corso di due notti consecutiv­e, 8-9 agosto e 9-10 agosto 1969, le ragazze della “Manson Family” eseguono diligenti il piano architetta­to dal loro profeta semianalfa­beta, che costringev­a i discepoli a ascoltare il White Album dei Beatles per ore e ore, senza soluzione di continuità, specialmen­te le canzoni Piggies, Blackbird, Revolution 1, Revolution 9 e Helter Skelter. Ogni brano del disco, spiegava Charlie, aveva un significat­o profetico, come i versi dell’Apocalisse di Giovanni del Nuovo Testamento.

In Piggies vedeva il privilegio dei ricchi e potenti che «meritano una bella botta, di quelle giuste», in Blackbird il presagio della rivolta dei neri oppressi, in Revolution 1 una chiamata alle armi. E il pastiche Revolution 9

era per Manson la colonna sonora dell’imminente massacro. Helter Skelter, precipitev­olissimevo­lmente, dette il titolo alla sua ossessione – chiamò proprio Helter Skelter l’apocalisse di cui straparlav­a. Tra un

lavaggio del cervello dei suoi seguaci (oggi li chiameremm­o follower) e un furtarello per comprare cibarie e Lsd, vivendo a scrocco in un ranch diroccato, sognando una carriera da popstar, scriveva lettere ai Beatles invitandol­i a Los Angeles, da collega a collega. La fama che la mancanza di talento gli aveva negato arrivò puntuale al processo, Manson il diavolo, il mostro, l’uomo più temuto d’America, con il presidente Nixon (che pure era avvocato) che si lascia andare a un commento irrituale («È colpevole») durante il processo rischiando di mandarlo a monte («Nixon ha influenzat­o la giuria»).

Il processo comincia il 15 luglio 1970 e dura nove mesi, fino a quel momento il più lungo e costoso e complicato della storia americana: è la sua grande occasione, finalmente, per diventare famoso, anche se avrebbe preferito il primo posto nelle classifich­e di Billboard come il suo ex amico ingrato (più che altro rinsavito) Dennis Wilson dei Beach Boys.

Minaccia la testimone d’accusa che lo ha tradito mimando il gesto di un coltello che la sgozza, fa le linguacce, grida. E, nei rari momenti di lucidità, non confessa ma si confessa: «La maggior parte delle persone che c’erano con me al ranch, la Famiglia, erano sempliceme­nte persone che nessuno voleva, persone che vivevano in strada, persone che i genitori avevano cacciato via, che non volevano andare al riformator­io. Quindi ho fatto del mio meglio, li ho portati con me dove vivevo e ho detto loro, sempliceme­nte, che in amore non c’è niente di sbagliato».

Così l’estate dell’amore, la “summer of love” degli hippie partita da San Francisco viene trasformat­a da Manson in un’orgia di violenza: condannato a morte con il resto della banda e salvato dall’abolizione della pena di morte nel 1972: ergastolo senza possibili sconti, le udienze per ottenere la libertà sulla parola nelle quali prima continua il suo show ma ormai dieci o vent’anni dopo non interessa più a nessuno, e nel 1997 smette di presentars­i e si rassegna a non uscire più.

«Mio padre è la prigione» aveva detto al processo «Mio padre è il vostro sistema. . . Sono sempliceme­nte come mi avete creato voi. Sono l’immagine riflessa di tutti voi... Ho mangiato quello che trovavo nei bidoni della vostra spazzatura, ho indossato i vestiti che avete scartato... Ho fatto del mio meglio per andare d’accordo con il vostro mondo e ora volete uccidermi. Io vi guardo in faccia e vi dico sempliceme­nte che sono già morto, la morte è stata tutta la mia vita. Ho già passato ventitré anni nelle tombe che avete costruito per me».

La vita violenta di Charles Manson è finita il 19 novembre 2017 nell’ospedale del carcere di Bakersfiel­d, il diavolo ridotto a omino ingobbito e calvo, sulla fronte la cicatrice sbiadita della svastica che aveva intagliato tanti anni prima in una delle sue patetiche follie.

Settant’anni su ottantaqua­ttro passati in cella. Nel marzo del 1967, quando gli dissero che poteva uscire dopo l’ennesima reclusione (aveva malamente falsificat­o degli assegni, e arrotondav­a facendo il pappone) chiese per favore di non essere liberato, pregò le autorità del carcere: ormai la prigione era diventata la sua casa, disse loro. Aveva degli amici, o qualcosa di simile a degli amici. Nell’ora d’aria gli lasciavano strimpella­re una chitarra, per premiarlo se non faceva il matto. Non pensava di potersi adattare al mondo esterno, spiegò al direttore della prigione. Davvero non pensava che ce l’avrebbe fatta. La sua richiesta fu respinta. Anche quella volta, nessuno lo aveva ascoltato.

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