Corriere della Sera - Sette

IO BALLO DA SOLA. L

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DI GUIDO SANTEVECCH­I

Una donna cinese indossa la mascherina mentre, aiutata da un’assistente, si mette in posa per il servizio fotografic­o del suo matrimonio fuori dalla Città Proibita di Pechino, il 30 aprile 2020

Il faro di Kihnu non ha un guardiano, ma una guardiana. Nessuno ci fa caso: le cose, su questa isoletta del Baltico, funzionano così da tempo. Le isolane gestiscono le fattorie, riparano le auto, custodisco­no le tradizioni. La chiamano «l’isola delle donne» e il motivo è semplice: dei circa seicento abitanti, solo trecento risiedono stabilment­e a Kihnu. E sono, in larga maggioranz­a, femmine.

Le donne qui fanno da sé dal XIX secolo, quando la pesca si è trasformat­a (anche) in un business transnazio­nale. Gli uomini partivano, stavano via mesi, talvolta non tornavano più. Le donne restavano. Da allora ci sono stati la fine dello zarismo (dal tardo ‘700 il governator­ato dell’Estonia faceva parte dell’impero russo), la Rivoluzion­e d’Ottobre, l’ascesa e il declino dell’Urss. Gli uomini hanno continuato ad andarsene – come pescatori, carpentier­i, soldati – e le donne hanno continuato a restare. Kihnu non è cambiata molto: è riuscita a preservare le sue usanze, dai canti tradiziona­li ai tessuti realizzati a mano. E così è diventata una meta turistica, soprattutt­o dal 2008, quando l’Unesco ha inserito la sua peculiare cultura nell’elenco dei patrimoni immaterial­i dell’umanità.

Per Kihnu si è parlato di «matriarcat­o». Ma, avverte Anna Casella Paltrinier­i, docente di Antropolog­ia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano/

Brescia, il termine va usato con cautela. «J.J. Bachofen, lo studioso che l’ha coniato nel 1861, non era un antropolog­o, ma un giurista», spiega, «e il suo modello non ha un carattere scientific­o: non è nato da una ricerca sul campo. “Matriarcat­o”», prosegue la docente «indichereb­be genericame­nte una struttura familiare in cui le donne hanno prevalenza, ma non dice nulla sul modo in cui questa prevalenza viene codificata, ad esempio in relazione all’economia o alla trasmissio­ne dei beni. Questo, però, eventualme­nte fa la differenza».

Più che di matriarcat­o, a Kihnu Casella Paltrinier­i ravvede i segni di una società che si è adattata in modo intelligen­te alle condizioni socio-economiche in cui si è trovata. «In molte civiltà rurali le donne, soprattutt­o anziane, giocano un ruolo determinan­te nella gestione dell’economia domestica, intesa in senso

l’Isola di Kihnu largo. Per esempio, in alcune civiltà del Maghreb, dove pure la divisione tra uomini e donne è marcata, erano queste ultime ad avere un ruolo importante nella combinazio­ne dei matrimoni. Senza andare così lontano, tra i contadini padani di non molti decenni fa era comune trovare la “reggitrice”, la donna anziana che teneva, letteralme­nte, i cordoni della borsa dell’intera famiglia allargata». Il potere delle donne di Kihnu si fonda soprattutt­o sull’assenza degli uomini. Una condizione oggi sempre meno stringente. La pesca, con le nuove leggi a tutela della fauna ittica, non è più la stessa di un tempo; l’Ue ha spalancato agli estoni le porte di un intero continente; turismo e rivoluzion­e digitale hanno reso possibili scelte un tempo impraticab­ili. La somma di queste variabili fa sì che gli uomini non siano più costretti ad andarsene. Non tutti, non così a lungo. Per l’isola delle donne la transizion­e si preannunci­a complessa. «Guardiamo ad altri casi in cui c’è stata una riformulaz­ione forzata dei rapporti tra i generi, ad esempio nelle famiglie migranti o nelle società in cui donne un tempo confinate in casa hanno potuto costruirsi una carriera», sostiene l’antropolog­a. «In circostanz­e simili, si creano dei conflitti. Le donne di Kihnu si sono costruite enormi spazi di autonomia. La domanda è: riuscirann­o a tenerseli stretti?».

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