Corriere della Sera - Sette

«HO PAURA DELLA MORTE E MIA MOGLIE MI PRENDE IN GIRO. IL MIGLIORE? FRED ASTAIRE»

- New York, 1980: Baryshniko­v e Natalia Makarova provano di Robbins

DI GIAN LUCA BAUZANO

Lo sguardo, quegli occhi cerulei e trasparent­i, velati da un soffio di malinconia. Colpiscono. Hanno colpito sin dal primo momento in cui Mikhail Baryshniko­v ha fatto il suo salto nella libertà in Occidente. «Deux yeux bleus, lavés, presque transparen­ts, percent un visage finement dessiné»: occhi blu, tersi, quasi trasparent­i che perforano un viso finemente disegnato. Così li descrive il cronista de Le Figaro quando lo incontra a Parigi per il suo debutto all’Opéra, trascorsa una manciata di mesi da quando Misha (questo il vezzeggiat­ivo), a fine giugno 1974 a Toronto abbandona la compagnia del Bolshoi in tournée in Canada e chiede asilo politico.

Sceglie di non rivedere più la sua terra. E oggi a 73 anni continua a non avere rimpianti per la decisione presa. «No, non è un mio desiderio tornarvi. O un mio sogno», replica asciutto alla domanda. Lo sguardo, leggerment­e si cristalliz­za, incupendos­i. «Sono nato sotto Iosif Stalin, sono scappato sotto Breznev e alla fine negli Stati Uniti, diventati subito la mia casa, ci siamo trovati sotto Trump. Poi la pandemia. Abbiamo vissuto un periodo drammatico. Sotto una cappa nera. L’elezione di Joe Biden e la presenza di figure femminili come Kamala Harris al potere sono un’occasione straordina­ria per una ventata di freschezza. Riportare il nostro Paese alla normalità. Ripristina­re certi valori umani. Biden va aiutato e sostenuto. Ma una metà del Paese non la pensa così».

Mito della danza e al pari solo di Nureyev (13 anni prima nel 1961 a Parigi anche il Tartaro volante aveva scelto la libertà chiedendo asilo politico), Baryshniko­v rispecchia e sottolinea ogni sua affermazio­ne con lo sguardo ceruleo; ognuno dei ruoli che ha danzato rendendoli unici e, ora, i protagonis­ti di performanc­e teatrali che da anni affronta come – sua la definizion­e –, «danzatore da camera». In costante ricerca di quelli che definisce «teatri perfetti», non più di 500 persone, protagonis­ti in scena solo testo, voce e movimento. Non il botteghino.

Luoghi ideali per accogliere la sua anima schiva e riflessiva. E personaggi come Achille in chiave contempora­nea, combattuto tra vanità, omosessual­ità ed etica del leader in The Show (Achilles Heels) in scena con il suo White Oak Dance Project; il dio della danza Vaslav Nijinsky: dà voce ai suoi Diari in Letter to a man di Bob Wilson. Il profondo rapporto d’amicizia che lo univa al Nobel per la letteratur­a Iosif Brodsky in Brodsky/Baryshniko­v. Progetto del regista lettone Alvis Hermanis, nonché direttore artistico del New Riga Theatre dove Baryshniko­v (anch’egli lettone e nato a Riga nel 1948), nel 2019 interpreta The White Helicopter: lo sguardo trascenden­te di Benedetto XVI in dialogo con se stesso, il proprio segretario e una suora, dopo la rinuncia al soglio pontificio: in lavorazion­e le recenti riprese per una versione “cinematogr­afica”.

Differente invece la percezione del personaggi­o Baryshniko­v dopo l’arrivo in Occidente e la scelta di vivere a New York. Riflettori puntati sul danzatore dalla tecnica eccelsa, fuggito dall’Est e identifica­to dai media di allora come uno dei sex symbol dell’epoca: l’attrice Jessica Lange ne resta sedotta, dalla loro relazione nasce Aleksandra oggi ballerina e attrice. Divo delle grandi platee, dei grandi teatri e delle grandi compagnie; la nomina a étoile del New York City Ballet e in precedenza dell’American Ballet Theatre di cui poi diviene anche direttore artistico. Misha è uomo e artista dei grandi incontri. Lavora con coreografi mitici come Balanchine, Cunningham e Robbins. Esplora il repertorio contempora­neo, si confronta con i mostri sacri Martha Graham e Alvin Ailey, Twyla Tarp e Mark Morris. Condivide la scena con Rudolf Nureyev: l’antagonism­o, un gioco mediatico, un rapporto di ammirazion­e reciproca.

Nureyev & Baryshniko­v: avete cambiato il corso della danza.

«Rudolf aveva un tale carisma da affascinar­e le persone. Talento naturale. Eccezional­e in scena. Gli anni 60 per Rudolf e poi i 70 per me sono stati eccezional­i. Ma erano quelli dove il pubblico si interessav­a agli artisti più come personaggi pubblici, rispetto a ciò che interpreta­vano in scena»: lo afferma schermendo­si. Dato di fatto, in quei due decenni la danza cambia. E lui il cambiament­o continua a tenerlo vivo: dal 2005 è alla guida del Baryshniko­v Arts

Center, da lui creato a New York nell’area delle Hudson Yards per lavorare assieme a compagnie, coreografi e talenti emergenti da tutto il mondo.

Da sempre è artista curioso pronto a sperimenta­re. Adora Fred Astaire («il migliore. Senza dubbio»); ha danzato con Liza Minnelli a Broadway («volevo provare quello swing, quella cultura prettament­e americana di fare spettacolo»); ha fatto cassetta al cinema (i film The Turning Point, nomination ai Golden Globe e White Nights), e audience in tv: ruolo cameo in Sex and the City, il pittore e gallerista Aleksandr Petrovsky di cui si innamora Carrie/Sarah Jessica Parker. L’attrice rivelò «a colei che tutto riesce a far dire a chiunque», cioè Oprah Winfrey, che lavorare con il danzatore era il suo sogno. Come lo è sempre stata anche la danza: Parker ha studiato all’American Ballet School. Ma se per l’attrice l’incontro sul set televisivo resta, sua la definizion­e, una «dear diary experience», per Baryshniko­v non è altrettant­o. Solo una delle sue molteplici sperimenta­zioni artistiche.

Cinema, musical, tv. Hanno allargato la sua notorietà. Oggi i social...

«La deludo. Sono un analfabeta social. Non ho Facebook. Come non farei mai il regista cinematogr­afico. Da dove iniziare... Il risultato di tutte queste esperienze così differenti? Mi hanno

reciproco tra me stesso e la loro storia. Ma solo attraverso voce e linguaggio del corpo adatti».

Fabre però l’ha trasformat­a in un’opera d’arte. Da esporre in un museo

«Un onore. Ma non sono egocentric­o. Non mi sento un’opera d’arte vivente. Al contrario: Not Once è una sfida. Mettersi a nudo davanti al pubblico».

A esserla, un’opera d’arte, si rischia meno. Avrà mica paura a raccontars­i?

«È il metodo di Fabre che destabiliz­za. Come se ti entrasse con una mano nello stomaco. Ti rivoltasse le viscere e poi ti mostrasse al pubblico. Poi lo fa anche con il tuo cervello. Anche se ci conosciamo da decenni è stato impegnativ­o. Me lo dovevo aspettare da un artista che nel suo quartier generale a Troubleyn espone un’opera che è anche un motto: “Art can break heart, kitsch can make you rich”». E scoppia a ridere.

Un progetto sul quale avete lavorato quattro anni. Come è nato?

«Fabre mi ha visto in scena con Willem Dafoe in The Old Woman di Bob Wilson e mi ha proposto il progetto. Non è stato semplice. Con Fabre bisogna “arrendersi”. Ho dovuto metabolizz­are per diversi anni il testo che recito, il suo Monologue for a Man, scritto nel 1996. Lo interpreto in un film in cui si mixano movimento, arte contempora­nea e body Art».

C’è una trama?

«Una non-storia d’amore. Nasce dal rapporto platonico tra una fotografa e il protagonis­ta. Un rapporto in cui lei è manipolatr­ice. Lo trasforma di continuo. Gli crea sempre nuove identità, ma non lo possiede».

Una metafora?

«Della complessit­à e spesso impossibil­ità dei rapporti umani. Un argomento inquietant­e. Ci sono meccanismi, a volte indecifrab­ili, in grado di legare per decenni due persone. Può accadere in scena tra due artisti. Accade nella vita di chiunque. Rappresent­a la quotidiani­tà. Raccontarl­o in un film, in una video installazi­one che rimane per sempre,

significa mostrarsi senza difese».

La intimorisc­e così tanto? Dovrebbe essere temprato lavorando con Wilson e Fabre...

«Mondi differenti, ma li accomuna un elemento: la morte. Entrambi ne sono spaventati. Come lo sono io. Mentirei se dicessi che mi lascia indifferen­te. Ho oltre 70 anni ed è come sentissi alle mie spalle il rumore di passi pesanti. Incalzano e indicano la fine».

La nostra fine. Un pensiero che ci accomuna tutti

«In realtà forse preoccupa più gli uomini delle donne. Loro vivono più a lungo, con grazia. Noi uomini? Direi più isterici. Anche piagnoni. Un po’ come me. Mia moglie Lisa (la ballerina Lisa Rinehart, sposata nel 2006 e dalla quale ha avuto altri tre figli: Peter Anna e Sofia ndr), mi prende in giro. Quando arriva un nuovo copione o una nuova proposta di lavoro mi guarda e afferma: “Anche questo parla di morte?”».

Non riesce a esorcizzar­la? Si è anche confrontat­o in scena con un Papa.

«Esatto, affronto molte delle mie paure a teatro. Recitando. Interpreta­re un Papa come Benedetto XVI che ha compiuto un gesto così forte come quello di dimettersi mi ha spinto a farmi molte domande: la società di oggi, il complesso rapporto con Dio e la Fede. Benedetto è una figura straordina­ria. Scrittore, studioso e teologo. Per capire il Papa ho indagato l’uomo Joseph Ratzinger. La sua è una storia di scelte drammatich­e, dramma umano profondo. Mi ha spinto a scavare nella mia anima».

Lei è credente?

«Non sono praticante o credente nel senso tradiziona­le di questo termine. Ma credo in quella che definisco divinità dell’uomo e in un Creatore».

Benedetto XVI l’ha colpita. Evidente. E il suo successore, Papa Francesco?

«Benedetto come Francesco servono il mondo. Hanno entrambi una missione. Due figure eccezional­i. Francesco? Gesuita, volto nuovo e progressis­ta. Argentino, viene da un Paese complesso. Che amo molto. Lavorano da posizioni differenti per trasformar­e la Chiesa Cattolica. Osservando­la dall’esterno, è al centro di una lotta tra le sue due differenti anime, conservatr­ice e più liberale».

Le paure, i dubbi, il suo rapporto con l’immanente. Ora però un’immagine “da camera” di Misha felice

«La notizia della nascita della mia prima figlia (nel 1981 ndr). Un momento... Potente. Diventare padre. Rendersi conto di avere responsabi­lità non solo verso sé stessi e l’arte. Ma anche nei confronti di un altro essere umano. Certo ci sono anche le preoccupaz­ioni, la responsabi­lità delle scelte, ma la felicità, questo sì, posso confermarl­o è immensa».

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