LA POESIA DI CELAN E IL SILENZIO COME PAROLA NELLA BAITA DI HEIDEGGER
«Scrivere poesie dopo Auschwitz», ha proclamato Theodor Adorno, «è un atto di barbarie». E invece lui, Paul Celan, di cui Ponte alle Grazie ha appena pubblicato un’antologia no dal sì), il poeta che in quel campo di concentramento era stato, ha continuato a scrivere. In tedesco, nonostante fosse poliglotta, come tanti altri ebrei nati in Europa orientale, e abitasse ormai a Parigi. Il confronto con quell’orrore non poteva che avvenire in quella lingua: era in tedesco che bisognava ridare voce a chi era stato annichilito («la voce di nessuno, ancora»), in una lotta tra necessità di ricordare e desiderio di oblio («scese, scese. / Scese una parola, scese / scese attraverso la notte, / volle risplendere»). Non era facile e ancora più sofferta fu la decisione, nel 1967, quando ormai era preda dei suoi fantasmi, di accettare un invito a Friburgo. «Mai più, in Germania!» si era ripromesso. Accettando, però, avrebbe potuto finalmente incontrare il più grande filosofo del suo tempo, Martin Heidegger, colui che più di tutti aveva compreso l’importanza della poesia – il modo stesso con cui Heidegger filosofava era ormai diventato una forma di poesia, esoterica e impervia. Ma Heidegger era anche il filosofo che con l’orrore non si era mai voluto confrontare, che non aveva mai rinnegato il suo passato. Era stato nazista, e non pronunciò mai una parola di pentimento.
La lettura delle poesie in un auditorium gremitissimo, e il filosofo in prima fila, fu un successo.
Celan però non volle farsi fotografare vicino a Heidegger. L’incontro vero avvenne il giorno dopo, quando il poeta fece visita al pensatore nella sua baita nella Foresta Nera, a Todtnauberg (che tradotto liberamente suona come “montagna di morte”). Rimasero in silenzio per la maggior parte del tempo. Probabilmente era solo così, camminando vicini, zitti, che potevano comunicare. Il problema è comprendere il significato di quel silenzio. Celan, prima di andarsene, appuntò sul libro degli ospiti: «Nel libro della baita, con lo sguardo rivolto verso la stella nel pozzo, con la speranza di una parola che viene dal cuore». L’immagine della stella ricordava il «segno portato dentro l’oscurità» di un’altra poesia. Ma cosa doveva dire questa «parola che viene dal cuore»? Celan compose anche una poesia in ricordo di quell’incontro, intitolata semplicemente Todtnauberg. Anche lì parla di «una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola ventura / di un uomo di pensiero». Cosa si attendeva Celan da Heidegger? Un’ammissione di colpa, probabilmente, come tanti altri allievi (e Celan fu convinto di averla sentita, in quel silenzio). Solo questo? O forse non anche una parola che potesse spiegare cosa era successo, come questo fosse potuto succedere? «Parla – / ma non separare il no dal sì. / Dai al tuo detto anche il senso: / dagli l’ombra». Ma possono le nostre parole spiegare tanta oscurità? Almeno rimane la poesia: «fidati della scia delle lacrime / e impara il vivere».