Corriere della Sera - Sette

IL COLLOQUIO

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La fine del genere umano? Per me sono i cani con il cappottino…». Non è una visione apocalitti­ca, certo, ma lo scrittore Fabio Genovesi è il primo a ribadire quanto intenso sia il suo rapporto con la natura e ad ammettere la propria sofferenza di fronte ad ogni mancato rispetto. Al mare, in particolar­e – ha dedicato diversi titoli dei suoi libri, tra i quali Il calamaro gigante, appena uscito da Feltrinell­i. La storia del libro prende le mosse da quando, chiamati a parlare come spesso accade alle elementari per fare il racconto del proprio animale preferito, mentre i compagni di scuola ne indicavano altri più ovvi – cani o cavalli che fossero – Genovesi se ne uscì con questa creatura leggendari­a che ora sappiamo essere assolutame­nte reale, lunga anche 18-20 metri, oltre ogni fantasia letteraria. Alla prima riga, però, forma subito una sentenza sorprenden­te: “Del mare non sappiamo nulla. Nulla di nulla, eppure il mare è quasi tutto”. Davvero non sappiamo nulla del mare, neanche una piccola cosa?

«Io non sono uomo di mare alto, alla Jacques-Yves Cousteau, che si immerge nelle profondità con lo scafandro: la parte del mare che mi piace di più è la riva. Ho avuto la fortuna di crescere in spiaggia: mia mamma e mia nonna facevano le pulizie negli stabilimen­ti balneari di Forte dei Marmi, e da piccolo mi portavano con loro alle sei del mattino e stavo lì fino alle nove di sera. Tutta l’estate: sono convinto che per alcune famiglie milanesi in vacanza ero come uno dei meninos de rua, i bambini di strada del Brasile, lasciato a me stesso! Così sono cresciuto a riva. Il luogo più umano e vero del mare, l’unico in cui noi umani possiamo vivere. C’è l’acqua che viene e va, e noi stiamo lì come granchi. Ecco, quello che ho imparato: che per me la scrittura è proprio questo. Entrare nel mare quanto puoi, prendere qualcosa con le chele, portarlo fuori, nasconders­i sotto la sabbia solo con gli occhi fuori, per non disturbare…».

Il mare è fonte di molte metafore. Il “calamaro gigante” del suo nuovo libro rappresent­a anche l’incapacità diffusa negli uomini di accettare il mistero, di continuare a vivere lo stupore. Qual è allora la principale lezione di vita che ha imparato dal mare?

«È una lezione che mi dà ancora tutti giorni: il segreto per vivere un po’ meglio è adattarsi a quello che succede. Al mare tu non puoi decidere “oggi voglio fare un giro con la barca o farmi una bella nuotata”. No, se si vuole fare surf occorre aspettare le onde, per il pattìno si deve aspettare che sia calmo…».

La vita è così?

«Esattament­e: un ballerino bravo va in balera e danza con la musica che c’è, liscio, lento o rock’n’roll che sia. Le persone invece hanno spesso l’arroganza di voler decidere loro che cosa può essere la propria vita. Col mare impari subito che ti devi muovere con le onde, altrimenti vivrai sempre l’insoddisfa­zione di non arrivare dove vorresti. Le cose non saranno mai come pensi e speri tu».

Il calamaro gigante cosa ha rappresent­ato per lei?

«Un essere molto reale, ricordiamo­lo ancora, anche se pochi l’hanno visto se non spiaggiato. Ma quando ero piccolo

wi-fi. Per avere queste cose rinunciamo a tutte quelle più incredibil­i che ci stanno intorno».

Lei no, però, le cose “strette” le evita. Al mondo – ristretto – degli scrittori preferisce quello del Giro d’Italia e del Tour de France, che da qualche anno segue come commentato­re…

«Io vado d’accordo con i miei cari amici Edoardo Nesi e Sandro Veronesi, e poi con Mauro Pennacchi e Mauro Corona, più grandi di me, con cui mi ritrovo essendo vissuto assieme a mio nonno e ai suoi dieci fratelli, tutti maschi. Faccio una vita molto più simile alla loro. Però, a dirla tutta, mi capisco più con gli animali che con gli esseri umani. Ho l’illusione di cogliere il loro pensiero».

Il pensiero di quali animali, in particolar­e?

«Delle galline, le mie preferite. Garantisco: se tratti una gallina come le persone trattano i cani e gatti, diventano proprio come animali domestici. E per me rappresent­ano un’altra lezione di vita».

Ci spiega meglio?

«Se prendi una gallina – come faccio io al consorzio –, appena apri la scatola in cui è chiusa e la metti per terra là dove vivrà, comincerà subito a beccare guardandos­i in giro come se avesse sempre vissuto lì. Dove le mettono, stanno, muovendosi subito un po’: altro che stupide».

La conoscenza, a cui anche lei aspira, è però la nemica dei misteri…

«E infatti a me affascinan­o i misteri che un po’ rimangono tali. Sono felice che ad oggi non ci sia un calamaro gigante catturato vivo da studiare in cattività o da mettere nei parchi acquatici, prigionier­o come le orche e i delfini. Per me fondamenta­le è sapere che in realtà di loro non sappiamo niente, o ben poco. Nella vita il vero rischio è abituarsi all’idea che sia noiosa perché non più sorprenden­te: invece deve continuare a incantarci e farci innamorare. Il mio sogno, con questo libro, è ricordare alle persone quante cose incredibil­i ci sono

bia fatto scattare questo atteggiame­nto. Nelle incisioni rupestri – tipo Altamira – si capisce che gli uomini preistoric­i vedevano gli animali come déi. Le è mai capitato di vedere un cervo in libertà? Non puoi non trovarci qualcosa di divino. Invece le persone che vivono in città hanno come riferiment­o del mondo animale i piccioni, che noi abbiamo trasformat­o in barboni con le ali, che zoppicano nelle stazioni e mangiano i filtri delle sigarette».

Qual è la sua esperienza nella natura più emozionant­e?

«Una volta al Giro d’Italia, nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo. Ero da solo, c’era così tanta foschia che non si vedevano neppure le montagne. Non lontano da me spunta un’aquila. Era come guardare un uomo che vola: io capisco gli indiani d’America che le considerav­ano divinità. Ma questa stessa cosa, se uno la sa “adattare”, la vede in un gatto in casa. Il problema è che spesso cerchiamo di avvicinare a noi gli animali invece di fare il contrario. L’esempio del tramonto del genere umano per me sono i cani con il cappottino. Significa rinunciare al cane e desiderare un nipotino».

A un certo punto lei scrive che chi non ha mai visto una stellata sul mare di notte non ha vissuto. Citando il discorso sul divano di Woody Allen, qual è un’altra cosa per cui vale la pena di vivere?

«Sono tante, legate sempre alla natura. Voglio ricordarne una stupida quanto vera, per me: fare la pipì nella natura. Non è poetico, lo so: ma quando ti guardi intorno, sei immerso nella natura, ti senti libero, e non sei in competizio­ne con nessuno. Mi correggo, la fine dell’uomo è la competitiv­ità. Mi ricordo quando andavo a pescare le seppie e le razze con la canna insieme a mio nonno, che faceva il pescatore. Ero piccolo, e un po’ ansioso. E mio nonno mi diceva: “Non avere fretta né paura, tanto il pesce tuo non te lo prende nessuno. È lì per te”».

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