Corriere della Sera - Sette

VOGLIO POTER AMMIRARE CHI NON NASCONDE IL DOLORE NON È UNA DIGNITÀ MINORE

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La signora si è toccata la tempia: «Dovrebbe farlo qui, è in testa che non è libera». «Ma Rosa», ho detto, «continua a desiderare, fa l’amore con un uomo, ride con le altre assaggiatr­ici, eppure questo non la affranca dalla coercizion­e, non la tutela dal costante rischio di morte». Nell’alloggio segreto Anne Frank ha continuato a studiare, a ritagliare foto di attori del cinema, si è persino innamorata: era mentalment­e libera? Può darsi, questo però non l’ha salvata dal campo di concentram­ento.

Da tempo mi preoccupa l’elogio insistito della forza di coloro che hanno vissuto un’esperienza drammatica, la guerra, la miseria, la violenza, una malattia cronica e irreversib­ile, senza mai arrendersi, senza soccombere, con la famosa dignità, i famosi denti stretti, il famoso coraggio. Quelli sì che sono esempi, persone da ammirare.

E le altre? Le altre che piangono, o sono insonni, depresse, le altre che si astengono dalla logica della sofferenza come dono, come percorso che può migliorarc­i (rispetto a chi? a cosa? per quale obiettivo finale?), non hanno il diritto di essere chi sono? Cosa c’è di riprovevol­e nel soccombere? Perché non dovremmo ammirare anche chi ha sofferto e non riesce a smettere? Chi porta le tracce del proprio dolore nel corpo, nei comportame­nti, per tutta la vita. Chi non ce l’ha fatta e si è ucciso.

Io ammiro Cesare Pavese e Primo Levi, Diane Arbus e Francesca Woodman, Nick Drake e Chris Cornell, e Mario Monicelli, e Mark Rothko, nonostante o al di là del loro suicidio, che non è un messaggio (che croce, questa del messaggio) di forza, anzi di resilienza (che croce, questa della resilienza). Non ha meno dignità, il dolore che non si può nascondere, soffocare, aggirare.

Ho l’impression­e che non essere felici sia ritenuta una colpa, e del tutto personale. Scissa dalle aspettativ­e che gravano su di noi. E dall’irreparabi­lità stessa dell’esistenza, che prevede la fine, il deterioram­ento, la perdita. Ma gli esseri umani sono complessi, ambigui. Possono investire energie fisiche e intelletti­ve in passioni, relazional­i o lavorative, e aiutare gli altri, addirittur­a lasciare il segno, credendo tuttavia che il mondo sia insopporta­bile, come dice il Caligola di Camus: «Per questo ho bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalit­à, di qualcosa di dissennato, forse, ma che non sia di questo mondo».

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