«CAFFÈ E CORNETTO, GRAZIE» E IL BARISTA: «ALGIDA?» STORIE DI GEOSINONIMI
UNA VOLTA, QUANDO ANCORA non potevo sapere che anni dopo mi sarei trasferito da Roma a Milano, ero entrato di prima mattina in un bar della Stazione Centrale e avevo chiesto un caffè e un cornetto. «Algida?» mi era stato domandato con tono beffardo. «No, alla crema» avevo risposto io, algidamente. «Ah, perché alla crema noi abbiamo solo brioche …». Questo episodio mi è tornato in mente quando un paio di anni fa, ormai milanese di residenza, in una delle mie prime cene nel ristorante sotto casa domandai se avevano verdure cotte: «Posso proporle degli ottimi cornetti» mi disse il cameriere. «Algida?» fui tentato per un momento di ribattere, poi capii che si riferiva a quelli che per me si chiamano fagiolini. Me lo ricordavo, perché mia moglie – milanese – una delle prime volte che eravamo a pranzo dai miei genitori, aveva espresso tutto il suo entusiasmo per le taccole al sugo. Mia madre aveva molto apprezzato i complimenti, tradendo però qualche imbarazzo: non riusciva a capire di cosa si stesse parlando. Scoprimmo così che le taccole erano i nostri fagioloni, altrove detti anche fagioli corallo. Fagioli, fagiolini, fagioloni.
A proposito di espresso, però, è il momento di tornare al caffè. Lo scorso fine settimana, sulla riviera toscana, ho provato per una volta a utilizzare quelle che si suppongono le mie competenze professionali. Così, al bar dei bagni (cioè dello stabilimento balneare, altrove detto anche lido), ne ho ordinato tutto fiero uno «molto alto». «È alto abbastanza?», mi è stato domandato, mostrandomi la tazzina colma quasi fino all’orlo. «Alto? Ma così è lentissimo!», ha commentato l’amico di origine siciliana con cui mi trovavo. «Pensa che per me, in realtà, sarebbe lungo» ho dovuto confessare, tradendo il fatto che quella era un po’ una pantomima di camaleontismo linguistico. Ma se il contrario di alto è basso, di lungo è corto, di lento qual è? Si può definire un caffè ristretto «veloce»?
Regione che vai, nome che trovi
Alternanze di questo tipo rientrano fra quelli che i linguisti chiamano «geosinonimi», cioè sinonimi distribuiti su base geografica: parole diverse, appunto, che nelle diverse parti d’Italia si usano per indicare una stessa cosa. Non sono propriamente parole dialettali: sono parole o espressioni italiane ma di uso locale, che in molti casi sono ancora ben vive in vari ambiti della vita quotidiana. Le ritroviamo – ad esempio – nei nomi di frutta e verdura, dei pesci, di tante pietanze; ma anche in molti altri campi. L’anno scorso è uscito il film tratto dal romanzo di Domenico Starnone intitolato Lacci, che aveva in copertina due scarpe legate tra loro. In molte zone dell’Italia settentrionale e della Toscana, però, quelli si chiamano stringhe; tra Venezia e Trieste c’è chi usa aghetti; tra Verona e Modena cordoni; a Firenze qualcuno li chiama spighette. Per farsi un’idea di quante siano queste oscillazioni e di come siano distribuite nel nostro territorio nazionale, si può dare un’occhiata al sito del progetto AliQuot «Atlante della lingua italiana quotidiana»: www.atlante-aliquot.de/index.php.
Addio all’attrice, è nata la regista. Forse alla fine non sarà proprio così, si tratterà piuttosto di un arrivederci. Ma certo in questo momento nella testa di Michela Cescon, 50 anni compiuti ad aprile, una delle nostre interpreti più solide e serie – cinema con Garrone, Sorrentino, Bellocchio e Marco Tullio Giordana, teatro classico e impegnato cominciato giovanissima alla scuola di Luca Ronconi – non c’è altro che «questa nuova avventura», come la definisce lei: la regia cinematografica. Il debutto nel lungometraggio con Occhi blu, che sarà presentato al pubblico del Festival di Taormina (27 giugno-3 luglio) e dall’8 luglio arriverà nei cinema, è la prima tappa. Una sorta di noir tra solitudini e ossessioni, ambientato in una Roma molto particolare e letta con uno sguardo ricercato, insolito.
Allora, Michela, per i 50 anni si è regalata il suo primo film?
«Proprio così. E non è un capriccio». Ma no, nessuno lo pensa...
«Lo dico nel senso che l’idea di dirigere un film è partita 10 anni fa, quando feci un piccolo corto che andò a Venezia, sempre con Valeria Golino, oggi protagonista e alter-ego molto voluta del mio esordio. Alla Mostra andò bene e lì ho cominciato a pensarci. Mi sono presa tutto il tempo necessario per capire come partire e dove andare. Marco Tullio Giordana mi dice sempre che ho “uno sguardo d’insieme”. Una bella definizione e una bella premessa». Valeria Golino protagonista, JeanHugues Anglade coprotagonista... Non ha mai avuto la tentazione di recitare anche lei nel suo debutto da regista? In Italia è abbastanza usuale il “di e con”.
«Mai. Forse perché del mio lavoro ho sempre vissuto male l’esposizione. Più passa il tempo, più si viene valutati per quanto ci si espone e non per quello che si fa. In Italia gli attori valgono perché diventano un po’ il clone di sé stessi. C’è confusione tra attore e personaggio. A me questo ha sempre fatto soffrire. Da lì i tanti ruoli piccoli che ho scelto al cinema, in cui non ti si riconosce mai. Mi dà molta più soddisfazione avere in mano un progetto in cui io curo gli altri e la storia. Mi espongo in quanto regista, questo sì. Farlo come attrice mi fa stranamente soffrire. È una lacuna grossa per chi fa il mio mestiere. O forse solo un modo di vedere le cose».
Mi pare che l’attitudine da regista covi in lei da ben prima del cortometraggio o della frase di Giordana.
«Ho iniziato in teatro alla scuola del grande Luca Ronconi. Che dopo poco tempo mi fece fare la protagonista di un suo spettacolo. Un anno e mezzo prima ero una ragazzina che parlava veneto e improvvisamente lui mi metteva dentro una struttura veramente importante. Luca era un personaggio veramente complesso. Io feci al meglio delle mie possibilità. Ma subito dopo, a 24 anni, ebbi un guizzo di carattere – che non mi è mai mancato – e gli dissi: “Maestro, guardi che io non posso fare il teatro che fa lei”. Lui aveva in mente un suo disegno e che ci fossi io o un’altra era uguale. Io invece ero giovane e volevo sperimentare, trovare una via personale. Con non so che coraggio ho lasciato il grande maestro e cominciato a lavorare in teatrini piccoli, a scegliere i testi, a organizzare. Ecco, sì, già a 24 anni avevo questa cosa dentro. Poi è arrivato Garrone…».
E con Garrone il cinema: Primo amore, 2004, lei è Sonia, costretta a dimagrire
quello che sono riuscita a far “passare” oltre lo schermo ma tu, da dentro, hai vissuto di più di quanto poi rappresenti. È una relazione molto faticosa quella dell’attore con il suo corpo. Quel che vedi è sempre limitante. Il palcoscenico lo vivo meglio, ma guardarmi nei film è sempre molto faticoso. Invece da regista tutto questo lo metti sugli altri. Mica male».
Insomma, quello dell’attrice più parliamo più diventa il suo passato. Eppure ha interpretato personaggi importanti della storia e della società: da Rachele Mussolini alla vedova Pinelli, dalla segretaria di Berlusconi Marinella a Pina Maisano, vedova di Libero Grassi. Un caso o li ha cercati?
«Sono personaggi che sono arrivati, legati a soggetti che erano molto belli. Quello a cui sono più legata è Licia Pinelli (il film, del 2012, è Romanzo di una strage; ndr). Un po’ perché poi ho avuto la fortuna di incontrarla, di starle vicino. Quando vengo a Milano la vado a trovare ancora: è stato un incontro veramente importante». Quali modelli ha il suo cinema?
«Voglio giocare con il genere. Mi piace il polar francese, un tipo particolare di noir in cui spiccava Jean-Pierre Melville. Il polar non è un filone tematico ma proprio un filone visivo. Per me nel cinema è importante la visione che una persona mi dà, indipendentemente da quel che mi si dice. Vedo un film e a volte mi dimentico persino la trama. Non sono mai intrigata da quello che poi succede. Raccolgo di più dall’immagine, ecco. Spero che in Occhi blu lo spettatore colga proprio questo al di là del “mi piace o no”. Uno entra al cinema e dopo la prima visione di Roma dall’alto, dopo questa moto che ti entra in campo con zoomata sul casco, dice: “Ok, ho capito a che gioco stiamo giocando, ci entro e ci gioco”. Poi ognuno si porta a casa quello che vuole, quello che riesce o quello che sono riuscita a dare io».
Lei voleva sicuramente raccontare un personaggio femminile forte.
«Cinque o 6 anni fa, alla prima idea del film, era nato molto più arrabbiato. Diceva “Faccio quello che fa un uomo perché non
me lo fanno fare”. Dunque tuta di pelle, moto, rapinatrice e senza avere alle spalle motivazioni particolari, drammi del passato. Una come John Wayne. Di Wayne non pensi quelle cose. Ma nei film italiani tutta questa roba alle spalle del personaggio c’è. Quando portavo a leggere la sceneggiatura mi sentivo dire “Sì, però… diamole un cane, cerchiamo di far capire la sua parte affettiva”. E io: “No, è una rapinatrice. Punto”».
E poi? Che è successo?
«Col tempo il personaggio di Valeria è diventato un femminile non arrabbiato, non lesbico, che non entra in battaglia in quel modo lì. Una figura abbastanza nuova, che nella sua vita fugge in continuazione. Non so cosa diventa o può diventare. Non è madre, né amante o moglie».
Qual è oggi la sua idea di donna?
«Nel 2021, con il #MeToo, con tutto quello che sta succedendo sul genere, credo che stabilire quale sia nuovo ritratto femminile sia il punto di domanda più importante. E forse il più interessante da cercare. L’uomo, in questo momento, purtroppo è come dentro a dei cliché. In tutte le storie che leg
Una delle prime immagini di Michela Cescon, 50 anni, in versione regista dietro la macchina
da presa. Il suo di cui ha scritto anche la sceneggiatura con Marco Lodoli e Heidrun Schleef, uscirà nei cinema l’8 luglio