Corriere della Sera - Sette

NOBEL PER LA PACE L’ERRORE DI PREMIARE LE INTENZIONI

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Poche stelle sono cadute in modo così repentino come quella di Abiy Ahmed, ma quasi nessuna in modo così violento. Come ha fatto il premio Nobel per la pace del 2018, il giovane premier etiope che apriva le prigioni per fare uscire gli oppositori, che metteva fine alla guerra con l’Eritrea dopo 20 anni, che sapeva usare parole ispirate («prima di raccoglier­e i frutti della pace, dobbiamo piantare i semi dell’amore, del perdono, della riconcilia­zione», diceva accettando il premio), insomma come ha potuto trasformar­si nel suo doppio? Un signore della guerra, non tanto diverso, per l’incurante ferocia, da quelli osservati da Naipaul all’ansa del fiume nell’Africa più cupa?

Forse, verrebbe da rispondere, l’hanno premiato troppo presto. O forse anche, a tutti noi, piace ingannarci. La parabola di Abiy Ahmed viene già accostata a quella di Aung San Suu Kyi. Avevamo ammirato la Signora, quando prigionier­a nella sua villa sul lago di Rangoon rinunciava a tutto, perfino a vedere il marito morente in Inghilterr­a, per non rinnegare il sogno di riportare la democrazia il Birmania. Poi il giorno e la libertà arrivarono, ma lei ha finito per soccombere crudelment­e al patto stretto con i generali: un’icona rinnegata in Occidente, prigionier­a un’altra volta nella villa in patria. Il peso insostenib­ile del Nobel prematuro, si potrebbe dire, che ha ossessiona­to Barack Obama per tutta la presidenza, mentre cercava di mostrarsi all’altezza, e inseguito come una funesta profezia di malaugurio Mikhail Gorbaciov — altro premiato, nel 1985 — fino alla dissoluzio­ne dell’Urss.

Nel caso di Abiy Ahmed, però, l’esito era un po’ più prevedibil­e. Da anni, ormai, i giurati di Oslo premiano, più della pace ottenuta, le intenzioni di raggiunger­la. Il processo, non i risultati. Come se la loro investitur­a — e la stessa cerimonia con lo smoking e la fama che regala agli investiti — servisse a indirizzar­lo, questo processo. I rischi, su Ahmed, erano altissimi. Mentre a Oslo limava il discorso, a casa già incarcerav­a gli oppositori. Pochi mesi dopo, usava il patto con il dittatore eritreo Afewerki per muover guerra alla regione del Tigray (ne parla Saviano alle pagine 12 e 13 di questo numero di 7). Bastava un po’ di prudenza: davvero un ufficiale dei servizi segreti della dittatura, quale era Ahmed nella sua vita precedente di colonnello, poteva essere estraneo ai modi spicci di un regime?

In tanti ora chiedono che il Nobel gli sia revocato. E c’è chi, come il professor Kjetil Tronvoll, scrive sul Guardian che l’unico modo dignitoso per i giurati di uscirne sarebbe di rassegnare in massa le dimissione e lasciare che il governo norvegese nomini un altro comitato.

Oppure, più sempliceme­nte, si potrebbe smettere di fare previsioni, e di ingannarsi. Pensare che la pace, la più nobile delle arti della politica, si faccia non nelle stanze di Oslo, ma sul terreno. Da quegli uomini straordina­ri tra noi che hanno il coraggio di parlare con «il più odioso dei nemici», come diceva Yitzhak Rabin, di passare per traditori (tra gli intransige­nti e i fanatici del proprio campo), di osare l’azzardo del compromess­o. Esistono. E in passato sono stati anche premiati.

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