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e tenzoni: tre mesi fa, re Abdallah ha accusato l’ex principe ereditario Hamzah di congiurare per rovesciarlo. L’ha arrestato con una ventina fra ministri e generali. L’ha obbligato a una pubblica dichiarazione di fedeltà. E da quel momento ha imposto a tutti i media di non nominarlo mai più. Che sia dimenticato, Hamzah, lui e il suo tentativo di golpe.
Fratelli coltelli, fratellastri che disastri. Dicono i beduini del Wadi Rum che i re e i cammelli fanno lunghi giri, ma sanno sempre quale è casa loro. Da ragazzo, Abdallah II frequentava Oxford, viveva
curarsi in America, il vecchio Hussein si trovò alla fine dei suoi giorni nel dilemma. Obbediente alla legge dinastica, aveva lasciato l’interregno al fratello Hassan, con l’impegno però che abdicasse di lì a qualche anno in favore del giovane Hamzah. Ma presto Hassan s’era rivelato inaffidabile. E non avendo molto tempo per decidere, scartati Hamzah per l’età e Hassan per l’inadeguatezza, alla fine non era rimasto che il 36enne Abdallah. Re Hussein lo convocò. Gli consegnò le chiavi del regno. E una raccomandazione: che dopo di lui fosse comunque Hamzah, un giorno, a sedersi sul trono.
Macbeth ad Amman. Le cose sono andate altrimenti. Ai tempi, hanno rivelato i cablogrammi desecretati da Wikileaks, volarono pure urla fra Rania e Noor. E poco importa che qualche capo delle 60 tribù giordane sponsorizzasse Hamzah, assieme ai sauditi, mentre l’esercito e gli americani lo bocciassero. Alla fine Abdallah ha vinto, almeno questo round. E l’unico successore, è stabilito da tempo, sarà suo figlio Hussein: una star dei social, milioni di follower come sua mamma Rania, l’ennesimo volto rassicurante d’una dinastia dilaniata.
I tempi si son fatti stretti, di nuovo. Le rughe di corte han preso il posto degli antichi sorrisi. E se l’ultima congiura è finita con l’abiura — altro che i Windsor con le lacrimucce di Harry&Meghan! —, ora c’è da governare una Giordania sempre più ingovernabile. Quattordici premier negli ultimi 22 anni di regno. Riforme eternamente promesse, come ha ricordato Hamzah, e mai realizzate. La nazione mediorientale più povera d’acqua, di petrolio e di lavoro, disoccupazione al 70%, nove milioni d’abitanti ricchi solo della loro posizione geostrategica. La seconda al mondo per numero di rifugiati: i palestinesi sono la metà della popolazione. E ci sono più iracheni o siriani qui che in tutta Europa.
La foto da cui siamo partiti è ormai ingiallita. «Chi ha tradito veniva dalla famiglia ed è stato un dolore», dice Abdallah: anche se «non è stato questo golpe la nostra sfida più dura». Vero. Churchill si vantava d’avere disegnato il regno con un tratto di matita sulla mappa, in un afoso pomeriggio al Cairo, e di averlo regalato ai principi hashemiti della Mecca e della Medina in segno di gratitudine per la loro lotta agli Ottomani. Il mondo arabo ha sempre irriso questa corte «inventata dagli inglesi, finanziata dagli americani e tenuta in piedi dagli israeliani», e non ne ha mai digerito il diritto di custodia sulla cupola d’oro di Gerusalemme, il terzo luogo più sacro all’Islam. Ma al Piccolo (grande) Erede è riuscito in questi 22 anni un miracolo di sopravvivenza: come il padre riuscì a resistere al Settembre Nero di Arafat, al prezzo di decine di migliaia di morti, Abdallah non è stato toccato dalle Primavere arabe, s’è liberato di Al Qaeda, ha stoppato l’Isis e adesso pure gli intrighi di corte. Nemmeno i Fratelli musulmani hanno mai sfondato, mentre in nome della sicurezza i sindacati venivano sciolti e i media imbavagliati (per legge, è vietato sparlare di cinque argomenti: Dio, re, esercito, denaro e intelligence). «Le Primavere arabe sono state una sveglia» commenta l’economista Yusuf Mansour «ma non per i giordani».
E questo fu un sollievo per Barack Obama, che una sera disse ad Abdallah: «Maestà, dovrebbero clonarla!». Certo, fece impressione sentirlo dal presidente americano campione di diritti umani: la Giordania non è mai stata una democrazia, ha scritto The Economist, ma solo il più democratico dei regimi autoritari nel Medio Oriente.
Una sera il re è andato al Teatro Concord di Amman, a vedere una commedia satirica. Ha riso, s’è divertito. La pièce s’intitolava Fahimtkum, ti capisco. Il giorno dopo, sul web si son chiesti: ma l’ha capito davvero, che sfottevano lui?
persone interagire con lui, o lasciare la scena del possibile crimine in orari «caldi». Del crimine, sì, perché gli esami sul corpo stabilirono, con un buon grado di certezza, che costui non fosse morto per cause naturali: incredibilmente, però, non si riuscì a capire quale tipo di mezzo fosse stato utilizzato per dare (o darsi) la morte. Forse, venne avanzata questa teoria, un misterioso veleno capace di agire in fretta senza lasciare tracce nel sangue.
A ritrovarlo, erano stati due fantini a cavallo. Notarono un corpo disteso sulla schiena, con una sigaretta fumata a metà e posata sulla camicia. Non era sicuramente un abbigliamento da spiaggia, il suo. Unghie e capelli erano a posto, le scarpe spazzolate. Le mani non denunciavano alcun mestiere manuale o vita faticosa. Era una persona ben nu
trita. Il personale addetto a posare il cadavere nella bara ricordò che il Somerton Man aveva polpacci particolarmente sviluppati, come succede a chi li utilizza molto per lavoro. La stampa si lanciò in elucubrazioni più e meno fantasiose: ci fu pure chi ipotizzò un mestiere di ballerino. Sulla provenienza dell’uomo, chi lo esaminò diede il parere che si trattasse di un europeo, forse di un inglese. Sebbene i suoi abiti, il cappotto soprattutto, fossero di origine statunitense. Per tentare un’identificazione, dopo aver constatato l’assenza di corrispondenze negli archivi australiani, gli inquirenti spedirono le sue impronte digitali all’Fbi: fu lo stesso direttore dell’agenzia, J. Edgar Hoover, a rispondere personalmente ai colleghi australiani nel 1949, confermando che non risultava alcun cittadino statunitense schedato con quelle impronte.
Il Somerton Man venne sepolto dopo qualche mese dal ritrovamento. Il cadavere era stato imbalsamato e, del viso, era stato fatto un calco in gesso, il massimo che la tecnologia del tempo potesse offrire per permettere ulteriori indagini. Che non portarono a nulla, però: neanche con la distribuzione delle sue fotografie in centinaia di sedi centrali delle forze dell’ordine in tutto il mondo occidentale, e pure in qualche nazione africana a forte presenza bianca. L’unica novità investigativa di quei mesi fu il rinvenimento, in una tasca nascosta del suo vestito, di un pezzetto di carta che recava la scritta «Tamam shud», cioè «la fine» in lingua persiana. Un cittadino consegnò alla polizia un libro di poesie dell’autore iraniano Omar Khayyam, al quale era stata strappata la frase poi sistemata nella tasca. Il libro era stato abbandonato il 30 novembre su un taxi di Adelaide.
Nel 1995, quasi quarant’anni dopo i fatti, un professore universitario dell’ateneo di Adelaide, Derek Abbott, si appassionò al caso di mister S., l’altro nomignolo dato all’uomo. Fu tanto diligente nello scandagliare i labili indizi da consegnare ai suoi studenti la serie sconclusionata di lettere dell’alfabeto trovata su quel libro di poesie, e attribuita al morto, per tentare di decifrarla. Sempre da quelle pagine, era stato ricavato un numero di telefono annotato a margine, e appartenente a una donna che abitava in città. Che però aveva negato, già decenni prima, di aver mai conosciuto quell’individuo, né si trovarono legami che meritassero un approfondimento.
Abbott provò a rintracciarla, ma la signora Thomson era morta. Così come era deceduto suo figlio, Robin. A forza di cercare, individuò un parente vivo
della signora: la figlia di Robin, Rachel. Il professore le raccontò la storia del Somerton Man e avanzò una sua ipotesi: lo sconosciuto della spiaggia poteva essere il padre di Robin. La cui madre aveva negato di conoscerlo perché si era rifatta una vita con un’altra persona. Per sostenere la pista furono esaminati alcuni capelli trovati sul calco in gesso, che però diedero risultati troppo incompleti per tracciare un profilo di Dna confrontabile con quello di Rachel. Con un altro esame sul capello, effettuato nel 2013, Abbott poté stabilire che nell’organismo dell’uomo circolava una quantità di piombo anomala. L’ipotesi è che mister S. fosse una spia russa, mandata in Australia – a Port Pirie per l’esattezza – a tentare di scoprire quali esperimenti nucleari gli Stati Uniti stessero conducendo nella zona. Un territorio in cui le concentrazioni di piombo nell’aria, a causa della delle serie radioattive legate alla lavorazione dell’uranio, erano particolarmente alte. Un’altra strada suggerita da chi si è occupato del caso suggeriva che l’uomo potesse essere un esponente del mercato nero, altra ragione per cui tutte le etichette dei suoi vestiti erano state rimosse e non c’era alcuna carta «parlante» addosso al cadavere. Tutte supposizioni senza prove.
A maggio del 2021, le autorità locali hanno dato il permesso per esumare i resti del Somerton Man. Con parecchie difficoltà per lo stato di conservazione della bara interrata, e altre che hanno a che fare con i prodotti utilizzati per l’imbalsamazione, capaci di «sporcare» le catene proteiche da cui si ricava il codice genetico. Il laboratorio che ha in carico il lavoro, il Forensic Science SA, è altamente specializzato. Tenterà di estrarre un profilo leggibile e, magari confrontabile con altri mediante le tecniche di genealogia forense.
In Australia esistono tre database genetici a disposizione delle forze dell’ordine, il più ricco dei quali è il Ncidd (National Criminal Investigation Dna Database), che conta circa un milione e duecentomila profili. Se non ci dovessero essere corrispondenze dirette, la ricerca tramite parenti di vario grado potrebbe anche durare qualche mese o, nei casi più ostici, qualche anno. Nel Paese ci sono circa 500 casi di corpi non identificati, ma nessuno ha mai avuto la notorietà del Somerton Man, per le peculiarità del suo caso. La sua scheda è comunque contenuta nel dossier «Operazione perseveranza», che il governo centrale ha varato proprio per tentare di chiudere il maggior numero possibile di casi rimasti in sospeso. Abbott non è sicuro, ma continua ad avere sospetti sul fatto che quella persona ancora senza nome dopo più di 70 anni possa essere un parente di sua moglie. «Ma che lo sia o no», ha aggiunto «ormai è come se lo avessimo adottato nella nostra famiglia. La prima cena con Rachel, la passammo a discutere della sua identità, e abbiamo finito con lo sposarci e avere tre figli. Oggi, stabilire la sua causa di morte non è più una priorità, almeno non quanto lo sia sapere finalmente chi è, restituirgli un nome e farlo riposare in pace».
Ai bambini, nella camera dei giochi, il professor Abbott ha spiegato che quel bel ritratto di un uomo in salute, camicia bianca e cravatta regimental, dipinto dall’artista Greg O’Leary e in bella mostra sulla parete, raffigura uno zio. Invece è un anonimo, inumato nel 1949 nel West Terrace Cemetery. In America lo avrebbero chiamato John Doe, in Australia è semplicemente Unknown Man, uomo sconosciuto. Ancora per poco, forse.