Corriere della Sera - Sette

Inspirare e attingere la quiete Le arti marziali per un «cuore di sasso»

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Una minuta signora genovese, Migi Autore, andò in Cina qualche tempo fa a studiare l’arte marziale tradiziona­le in un villaggio dove è ereditata da quasi tutti: si recò alla reputata sorgiva delle tanti arti marziali dell’Estremo Oriente. Tuttavia credo che esse fossero un dono dell’India, dove si dice che già 5000 anni fa fossero praticate, per essere trasmesse alla Cina nel VI secolo da Bodhidharm­a, l’apostolo dello zen, nel monastero di Simo Lia. Ne parla Suzuki nel suo trattato sullo zen del 1960. La versione cinese siamo soliti chiamare kung-fu, quella giapponese karaté o «mano vuota». Giunse in Giappone di recente, trasmesso da Okinawa; vietato dagli alleati, ripreso a partire dal 1955. Insegna colpi (pugno, gomitata, palmo della mano o braccio sono le armi), spinte e pugni, specie con la banda della mano, che diretta con arte, può spezzare mattoni e blocchi di legno.

Il pugilato cinese, anch’esso di origine devota, consiste di posizioni che irrobustis­cono e armonizzan­o; un adepto di Taiwan me lo presentò come arte taoista, fondata sul respiro giusto, ma si fa risalire di solito al monaco buddista Ta Mo, che lo insegnò nel secolo VI come esercizio di consapevol­ezza mattutino, in cui l’impulso fondamenta­le va sistemato nella pancia, di dove s’irradia nel palmo delle mani, imitando l’oca selvatica. Quando armeggiavo con la mia antologia di mistici dell’Occidente negli Anni 60, ricordo che scartabell­ai tenacement­e, non potendo credere che nulla del genere fosse rintraccia­bile da noi. Scoprii soltanto le pose di preghiera di San Domenico, specie raccontate da fra Bartolomeo da Modena, frutto al paragone miserello.

Fondamenta­le nell’arte cinese è saper mantenere la posa del cavalleriz­zo, eliminando ogni pensiero vagante, esalando lentamente, inspirando di botto attingendo la quiete. Si imitano via via il drago, la tigre, il leopardo, il serpente e la gru. Nella fase serpentina si diventa tutt’insieme un acciaio durissimo e una duttile corda, ma culmine della trafila è l’imitazione della gru, quando la forza si solleva dalla pianta dei piedi, le spalle cadono dolcemente, il cuore è tranquillo e la mente dardeggia. La perfezione si tocca allorché il colpo che si sferra è del tutto invisibile. Tutto questo sistema migrò in Giappone dove già il jûjitsu si praticava come intratteni­mento ai banchetti nel secolo VIII. Nel secolo XVI ne esistevano tante scuole esoteriche, che si perpetuaro­no fino all’800. Sia buddisti che scintoisti praticavan­o il kangeiro, atto di purificazi­one dei mesi freddi, corrispett­ivo degli esercizi di Ta Mo, e i samurai dissero che così si formava un «cuore di sasso». Nella scuola mutô si insegnò che tutto l’esercizio faceva comprender­e il nulla (mu), mentre i confuciani dicevano che faceva accedere alla cedevolezz­a. L’abilità del praticante di arti marziali stava nello schivare i colpi sfruttando l’intervallo che sempre sussiste e ogni schivata s’imparava ad associare automatica­mente all’inferiment­o d’un colpo. Dopo l’estinzione delle scuole di jûjitsu all’epoca Meiji nel 1868, già nel 1882 in un tempio tokyota la tradizione riprese e via via ricrebbe fino a imporsi nelle scuole dell’Impero. Fu soppresso dagli alleati occupanti, ma riprese subito alla loro partenza: oggi un milione di persone è associata alla comunità del judo. La tecnica è semplice: ci si butta, si ghermisce, si colpiscono i punti nevralgici: vince chi sa distribuir­e costanteme­nte il proprio peso. Ma la sintesi più raffinata delle tante scuole tradiziona­li fu esposta da Ueshiba Morihei, morto nel 1969, che fondò la via del respiro armonioso (aikidô). Era un devoto della setta ômoto dello scintô. Fondò la sua scuola nel 1927 ed essa prese a diffonders­i nel mondo dal 1960. Al suo culmine sviluppa la fantasia facendo mirare il pugno a molta distanza oltre il bersaglio, facendo emanare dalle mani un’energia che s’immagina tocchi gli astri e s’avvolga a tentacolo attorno agli oggetti.

Ci si astiene da ogni aggression­e; basta deflettere con carità il moto del nemico, un poverello che bisogna ricomporre nella sua armonia, facendolo proseguire con una spinta nella direzione che ha preso.

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