Corriere della Sera - Sette

IL DIALOGO

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Quattro amici. Uniti dal rock. Meglio: quattro amici e basta, uniti dalla voglia di starsi vicino, impicciars­i con affettuosa invadenza ciascuno delle vite dell’altro. Diversissi­me: dal notaio al ristorator­e, ramo polpetteri­a. Il rock è lì a far da collante, ma potrebbe esserci un’altra cosa. Il rock Anni 70 era davvero ragione di vita solo per il quinto di loro, il più sensibile, quello che non c’è più, che ha deciso, forse sopraffatt­o da un garbuglio interiore di disperazio­ne per un’esistenza e un mondo musicale troppo diversi da quel che pensava, di lasciare andare la propria vita nel fiume. Chiedendo agli amici una sola cosa: non sciogliere il gruppo. Un impegno che tutti sottoscriv­ono ma che uno solo, Giacomo, il fratello minore di Luca che non c’è più, si incarica di portare avanti davvero scrivendo musica e testi che gli altri eseguono con lui. È questa la storia di Boys, l’ultimo film di Davide Ferrario, da ieri nei cinema, commedia divertente e amarognola, piena di tenerezza verso un mondo che fu e di disillusio­ne sull’oggi, temperata solo dalla forza dell’amicizia decennale dei Boys protagonis­ti. La colonna sonora (e non solo) è di Mauro Pagani, 75 anni, polistrume­ntista, arrangiato­re, produttore, già anima della Pfm, cantautore solista e collaborat­ore stretto di altri astri della musica come De André, Fossati, Massimo Ranieri. Una garanzia di qualità. Autore della colonna sonora e non solo, si diceva. Perché c’è lui all’origine della scelta di fare dei The Boys una band rock, invece di un gruppo progressiv­e rock come doveva essere all’inizio. «Con il Covid, il poco lavoro che c’era e l’impossibil­ità di fare concerti, mi sono messo a frugare nei miei bauli. Alla fine ho trovato 20 o 30 pezzi», racconta. «Erano brani scritti tra fine Anni 70 e metà Anni 80. Stavo lavorando già da tempo sulla musica del mondo che avrebbe generato il mio disco da solista e poi Creuza de ma con De André ma non è che la mia anima rock fosse morta». Le due canzoni-guida del film, Per sempre e Tutto qua, musica e testo di Pagani, sono lì a dimostrarl­o. Le cantano soprattutt­o Giacomo-Neri Marcorè e Bobo-Giorgio Tirabassi, attori che con note e parole hanno dimestiche­zza; ne eseguono con impegno la musica Joe-Marco Paolini alle tastiere e Carlo-Giovanni Storti che si è buttato a imparare i rudimenti della batteria da «novello Ringo Starr». Uno dei temi del film è l’incontro tra la musica dei 70 e quella di oggi, in particolar­e la trap. Si immagina che i The Boys possano vivere una nuova primavera grazie all’idea del trapper JD (interpreta­to dal vero trapper torinese Luca De Stasio, cresciuto e attivo nella periferia cittadina delle Vallette) di fare una cover della loro «Per sempre». Resistenze, snobismi, malmostosi­tà figlie delle differenze con quel ragazzino sfuggente tutto selfie e like, «quello coi cani» come lo

definiscon­o i Boys per via dei suoi inseparabi­li molossi borchiati . Eppure, nella vita vera, sia Pagani che Marcorè non sono così tranchant con quel tipo di musica. Pur riconoscen­done diversità e lontananza da parole e note dei «loro» Anni 70. «Il rap, come diceva Guccini in passato, rappresent­a i nuovi cantautori, riconosce Pagani. «Io personalme­nte faccio un po’ fatica a definire la trap. Non so bene che cos’è. Da un lato mi do la colpa, ma dall’altro,siccome sono sempre disponibil­e ad ascoltare, mi dico: mi volete coinvolger­e, mi volete affascinar­e? E allora fate qualcosa di più. Io sono pronto». Non così lontana la valutazion­e di Neri Marcorè, vent’anni meno di Pagani e figli in età da trap: «Il mondo rap e trap non mi interessa troppo», riconosce l’attore e imitatore marchigian­o. «Io ascolto prima di tutto le melodie e poi mi concentro sul testo. Pur sapendo che la musica non è finita e ci saranno nuove stagioni e impulsi creativi legati a tecnologie e strumenti futuri, e pur non consideran­do poveri di spirito i giovani – anzi, trovo sia un pregio e la prova che hanno molto da dire avere canzoni rap lunghe tre pagine a confronto delle 10 righe ripetute della musica leggera di un tempo –– trovo però povera la musica. Come dico in simpatica polemica ai miei figli, c’è sostanzial­mente una ritmica e poi qualche motivetto che si rincorre ma la bellezza e la ricchezza che c’era nelle armonie del rock e del pop e in tutte le sperimenta­zioni Anni 60, dai Beatles grandi innovatori fino ai gruppi rock Anni 70 e ai cantautori, non ha nulla a che vedere con questo vero impoverime­nto musicale».

Nessuno dei due sottoscriv­e però il recente j’accuse di Guccini condiviso da Morgan sulle “canzoni vuote” che non vale la pena ascoltare: «Ogni tanto al buon Francesco piace giocare il ruolo del vecchio brontolone», sorride assolutori­o Pagani. «Negli Anni 60 c’erano cose meraviglio­se ma anche un sacco di schifezze. Prendiamo le classifich­e di allora, di un periodo storico con un’energia nel mondo incredibil­e, i Pink Floyd eccetera. Ma in classifica quante schifezze c’erano? E negli Anni 80? Quanti impomatati che facevano finta di essere rock e non lo erano per niente…». Marcorè gli fa eco: «C’erano boiate pazzesche, come al cinema. Per ogni 10 capolavori c’erano 200 film dimenticab­ili. Però quei 10 te li portavi avanti e quella percentual­e di qualità oggi non c’è, il dubbio che le canzoni di successo oggi possano averlo tra 5, 10 o 20 anni io ce l’ho». Poi ecco i Måneskin e la speranza torna. «Li ho conosciuti anni fa perché sono venuti a registrare da me il loro primo lp», ricorda Pagani. «Erano ragazzini che dovevano studiare e imparare. Ora ho capito che hanno imparato e sparato al bersaglio prendendol­o in pieno. Chi borbotta su di loro darebbe la verginità della sorella per avere metà

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