LA LIBERTÀ DI VOTARE È DOPAMINA MAI RINUNCIARE
Èquestione di dopamina. E di democrazia. Lunedì 4 ottobre sono successe due cose, in apparenza slegate. Per alcune ore «è crollato il sistema» – questa era la spiegazione universale – che tiene in piedi il traffico di Facebook, Instagram e WhatsApp, tre regioni dello stesso super Stato di Mark Zuckerberg. Ore senza comunicazioni digitali, vocali, foto, cuoricini, commenti. Tra le conseguenze del blackout ci sono state interruzioni, anche gravi, nel funzionamento di servizi che ormai si affidano a un modello ibrido di condivisione delle informazioni. E il disorientamento individuale di chi sulle piattaforme social rovescia energie, tempo, emozioni: un fiume di clic ormai necessario per spostarsi al largo e navigare i mari di Internet con il motore sempre acceso di un’identità virtuale confortata dalla scia di amici e follower.
Nello stesso pomeriggio, abbiamo scoperto che per eleggere sindaci e assemblee comunali (più i rappresentanti della Regione Calabria) si era mosso appena un italiano su due. Eppure nelle settimane precedenti – precedenti la camminata di quartiere verso i seggi – la battaglia non sembrava spenta. Almeno in tv. E soprattutto sui social. Lo chiamano slackactivism: parola derivante dalla fusione di due termini inglesi, slacker e activism, che Wikipedia traduce in «attivismo per fannulloni». Mostriamo interesse per una causa soltanto per poter provare quel benessere leggero che sentirsi “impegnati” ci restituisce al momento. Finché l’impegno non va a incidere sulla nostra quotidianità.
Ma che c’entra la dopamina? La dopamina venne individuata nel 1957: è uno dei principali neurotrasmettitori che trasportano i messaggi urgenti. Tipo bere se hai sete o procreare affinché la specie non si estingua. Negli anni Ottanta venne messa in luce la relazione tra questa molecola e la gratificazione: la dopamina si attiva nell’anticipazione di una ricompensa, di un premio. Ispira quindi le azioni che dobbiamo intraprendere per rispondere a bisogni o desideri: accende la sensazione che proveremo “dopo”. Uno psicologo clinico britannico la definì sul Guardian «la Kim Kardashian delle molecole». Fu Sean Parker, che rimase nel team di sviluppo di Facebook fino al 2005, a spiegare come gli architetti del social network cerchino di sfruttare appieno questo meccanismo. Ogni volta che mettiamo un like regaliamo all’autore «a dopamine hit», una botta di dopamina, e partecipiamo a un circuito che farà il suo giro e tornerà a noi. Creando dipendenza collettiva. Sono le stesse parole che ha usato Frances Haugen, ex product manager di Zuckerberg, nella denuncia al Congresso Usa: i profitti vengono prima delle persone, un clic in più vale qualunque rischio di «far male ai singoli» o «indebolire le democrazie».
I riti tradizionali della democrazia, nel frattempo, non attivano le nostre sorgenti di dopamina. Votare, e dunque scegliere chi rappresenterà i nostri interessi, non ci gratifica, non ci fa sentire meglio. Lontani i tempi della matita di Gaber, il quale ne Le Elezioni cantava della domenica mattina del voto quando «ti senti più pulito» e provi «una dolcissima emozione». Fino al sognato ratto finale della matita «lunga, sottile, marroncina, perfettamente temperata»...
Era il 1976. Che cosa ci è successo da allora? Potremmo elencare le colpe della politica – i demeriti di partiti slabbrati incapaci di trasmettere vicinanza e competenza all’elettorato – e su questo è stato giustamente scritto tanto dal 4 ottobre. C’è però uno spazio di riflessione che chiama noi, gli aventi diritto, a non rinunciare alla partecipazione: a non deporre le armi e le schede, ancora più decisive in tempi di democrazie incerte e assediate dagli algoritmi. La libertà è dopamina pura. I trasmettitori siamo noi.