L’INTERVISTA
Appare puntualissimo sullo schermo con la lunga barba bianca che da qualche tempo ne contraddistingue il look. A 92 anni non si risparmia, parla con 7 per un’ora, si congeda perché lo aspetta un’altra intervista. Noam Chomsky, che torna nelle librerie italiane con Precipizio. Il Capitale all’attacco della democrazia e il dovere di cambiare rotta (Ponte delle Grazie), è forse l’intellettuale americano più conosciuto al mondo, una celebrity. «Una cosa a cui non do il minimo peso», si schermisce. Ha insegnato a migliaia di studenti, ne ha incontrati, ispirati e sfidati, con i suoi studi sulla linguistica e con le sue idee radicali, molti di più.
Cominciamo da come pensano, i ragazzi di oggi, e non solo loro.
Lei è sempre stato un difensore accanito della libertà di parola, si sente a disagio davanti alla resistenza che spesso si incontra a discutere punti di vista diversi dai propri?
«La soppressione del free speech e la cancel culture non sono una novità. Potrei fornire moltissimi aneddoti personali: incontri interrotti, interventi della polizia per proteggermi. Ma quando tocca alla sinistra essere demonizzata nessuno ne parla. Ora succede che segmenti delle generazioni più giovani autodefiniti progressisti copiano alcune di queste tattiche, ed è sbagliato come principio e suicida dal punto di vista tattico: è un regalo alla destra. Se Charles Murray (controverso politologo ultra conservatore, ndr) vuole fare un discorso al campus, e gli studenti fanno in modo che non parli, lui si vende come un eroe che difende la libertà di parola dai fascisti di sinistra, la sua popolarità cresce, Trump può usarlo nei suoi discorsi...ripeto, è suicida. L’esplosione di nuove preoccupazioni su razzismo e diritti delle donne sono tutte legittime, ma non quando sono perseguite in un modo che mina quegli stessi diritti».
Per esempio?
«Prendiamo lo slogan Defund the police. L’idea dietro era piuttosto ragionevole, voleva suggerire il trasferimento dalla polizia a servizi civili di alcuni interventi legati per esempio ai tossicodipendenti, ai senzatetto. Ma se usi lo slogan Defund the police fai il gioco dell’estrema destra che lo prenderà, lo porterà su Fox News e comincerà a dire: ecco queste persone vogliono allontanare la polizia dalle vostre comunità così i criminali possono arrivare e derubarvi. È un assist insperato all’avversario».
L’anno scorso, insieme a intellettuali americani ed europei, ha firmato una lettera sul free speech che ha suscitato enormi controversie...
«La lettera in sé era davvero semplice e innocua... Sono state le reazioni da parte di molti intellettuali di sinistra a dimostrare che la patologia denunciata è reale. Strano perché la posizione della sinistra è sempre stata quella di Rosa Luxemburg: se non permetti l’espressione di opinioni che non ti piacciono vuol dire che sei contrario alla libertà di parola, punto. La maniera giusta di rispondere è analizzare, smontare, usare il confronto come esperienza educativa. Tra l’altro una delle cose buone di questo Paese è che siamo i primi nel mondo nella protezione della libertà di parola».
A proposito della democrazia americana, in Precipizio lei suona un allarme molto serio sulla sua tenuta.
«Perché sono convinto che sia sull’orlo del collasso. Ormai ne parlano anche i media mainstream, da Martin Wolf sul Financial Times al politologo conservatore Robert Kagan. Abbiamo due partiti, e uno dei due, quello repubblicano, ha abbandonato la dinamica parlamentare. Sono insurrezionalisti con politiche estremamente reazionarie. Sanno di essere minoranza, e sono al servizio dei super-ricchi, cosa divenuta quasi caricaturale sotto Trump, il cui principale successo legislativo è stato un provvedimento fiscale che ha pugnalato alle spalle la popolazione. Ora, non potendo guadagnare abbastanza voti con questa piattaforma, i repubblicani abbracciano i temi culturali: il suprematismo bianco, le armi, l’aborto... Succede dai tempi di Richard Nixon con la Southern strategy, quando conquistarono con la retorica razzista i democratici del sud delusi dal sostegno del partito ai diritti civili. Poi si resero conto che se fingevano di essere contro l’aborto — Reagan era stato pro-choice, e così Bush padre — potevano prendere i tanti voti dei cristiani evangelici e dei cattolici del Nord. Ora sanno di poter solo sperare di restare in piedi, minando il processo democratico. E così gli Stati repubblicani passano delle leggi che rendono difficile votare per chi tende a scegliere progressista: minoranze, poveri».
Ma spiegare tutto così non vuol dire considerare un po’ stupidi gli elettori?
«Bisogna pensare a quello che vedono. I repubblicani hanno un sistema mediatico che racconta la loro versione della realtà: le talk radio, Fox News. Un Paese dove c’è caos sociale è una preda facile per i demagoghi, non è certo la prima volta nella Storia. Gli assalitori del sei gennaio erano relativamente benestanti, borghesi: è la base standard del fascismo».
Trump sarà ancora il loro leader?
«Certo, e potrebbe vincere nel 2024 se si continuerà a minare il diritto di voto. L’altra
è stato un momento in cui Kevin Spacey era l’attore più ricercato d’America: Frank Underwood, il personaggio che interpretava nella serie tv House of Cards, era arrivato alla presidenza, lui vinceva premi e veniva scritturato per film di primo piano. Poi, il 29 ottobre 2017, l’attore Anthony Rapp raccontò di essere stato molestato a 14 anni da Spacey, che all’epoca di anni ne aveva 26: Spacey disse di non ricordare, si scusò, ma altri quindici giovani uomini lo accusarono di comportamenti impropri e lui venne cancellato.
Da allora non si è visto più in giro, diventando una delle vittime più note della cancel culture, la pratica di non supportare più persone, aziende o istituzioni che sono considerate inaccettabili dal punto di vista etico. Questa cultura della cancellazione nasce spesso fra i giovani o nei campus universitari, e decolla attraverso i social network colpendo indistintamente colpevoli e innocenti, cancellando storia, letteratura, musica, e persino facendo cadere le statue.
Ad esempio quelle confederate, abbattute in tutti gli Stati Uniti in quanto simbolo del suprematismo bianco e del razzismo sistemico, quello insito nelle istituzioni che hanno sempre avvantaggiato i bianchi rispetto ai neri, ma anche quelle di Cristoforo Colombo — che, a seconda dei punti di vista, ha scoperto l’America o si è reso colpevole di genocidio dei nativi — o di Italo Balbo, semplicemente fascista. Ma anche quelle di Abraham Lincoln o Thomas Jefferson, i padri di una patria che — giudicata secondo gli standard moderni — è stata fondata sulla schiavitù.
La battaglia era cominciata proprio da un simbolo confederato in South Carolina, nel 2015, dopo la strage in una chiesa afroamericana di Charleston: la governatrice repubblicana Nikki Haley accettò di rimuovere la bandiera Dixie dei secessionisti, simbolo di odio e segregazione, che dagli anni Sessanta sventolava dalla cupola del parlamento statale.
Da lì in poi, i casi sono stati centinaia, celebri e meno noti: un manager tech bianco che aveva insultato una famiglia filippina in un ristorante della California e che fu costretto a dimettersi; il batterista dei Police Stewart Copeland accusato di essere figlio di una spia e quindi complice di colonialismo e genocidio; il direttore delle opinioni del New York Times costretto a lasciare il proprio lavoro per aver pubblicato un intervento controverso (di un senatore) e così via.
La cancel culture non è un movimento, non ha leader e non c’è un’ideologia di fondo, ma spesso viene associata all’estrema sinistra e alla cultura woke, quella di chi è in stato di allerta contro le micro-aggressioni subite dalle minoranze. Ed è così divisiva che persino la rivista Harper’s, decisamente progressista, ha pubblicato lo scorso anno un appello firmato da 153 intellettuali che denunciavano l’atmosfera “soffocante” che ha prodotto. «Il modo di sconfiggere le idee sbagliate è mettendole in luce, discutendone, criticandole e convincendo gli altri, non cercando di metterle a tacere», avevano scritto fra gli altri Margaret Atwood, Salman Rushdie, Noam Chomsky, Francis Fukuyama, Gloria Steinem e Garry Kasparov. «Rifiutiamo di dover scegliere tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra».
ettetevi comodi e lasciate fluire le immagini. Poco importa se gli eventi li avete vissuti, il docu-film Onde radicali sarà comunque una scoperta, e accompagnerà soave i vostri ricordi della storia d’Italia. Se invece nomi come Giorgiana Masi o Giovanni D’Urso o Enzo Tortora non vi dicono nulla, mettetevi comodi lo stesso: dalla storia di Radio Radicale c’ è soltanto da imparare.
Settantadue minuti di immagini per raccontare quasi cinquant’anni di battaglie radicali: non è stato facile per gli autori barcamenarsi tra l’enorme mole di documenti custoditi nell’archivio di una radio che, si può dire, ha registrato tutto quello che di politico c’era da registrare, dal 1976 in poi.
Adesso, va detto, l’archivio è (quasi) interamente digitalizzato, ma immaginate voi cosa vuol dire scartabellare tra le seicentomila schede che conservano le registrazioni di sedute del Parlamento, i congressi di partito, i processi. Un patrimonio unico che non ha uguali in altre parti del mondo.
Marco Dell’Omo e Simonetta Dezi per scrivere il film ci hanno lavorato due anni in quell’archivio, con la guida di Gianfranco Pannone che oltre alla sceneggiatura ha firmato la regia. Onde radicali verrà presentato venerdì 22 ottobre alla Festa del Cinema di Roma. Prodotto dalla Movimento film di Mario Mazzarotto con il sostegno del ministero della Cultura, in seguito si potrà vedere anche su Sky Documentaries. Ma adesso proviamo noi a srotolare il filo di questo racconto che va avanti e indietro nel tempo con un ritmo onirico, come i pensieri.
Tutto comincia quando la deputata Emma Bonino ha ventotto anni e Marco Pannella ha superato abbondantemente i quaranta. Hanno conquistato tutti e due uno scranno a Montecitorio e rappresentano con fierezza il Partito Radicale insieme con Adele Faccio e Marco Mellini. Era il 1976 e troppi eventi dovevano ancora arrivare a far deflagrare il Paese. Nel frattempo ci pensarono
loro, i radicali, a rivoluzionare la comunicazione.
Non sono in molti a saperlo, ma la storia di Radio Radicale inizia con l’altoparlante usato sui banchi dei deputati. Collegato artigianalmente al filo di un telefono, fu usato per diffondere nella radio le voci di Montecitorio. Semplice come armeggiare qualche transistor. Impensabile fino a quando non ci hanno pensato i radicali. Immaginabili le proteste, dopo. Tante quanto inutili: le sedute del Parlamento erano, e ovviamente sono, pubbliche. Con quel telefono attaccato al megafono non era stato fatto altro che portare fuori dalle mura del Palazzo quello che i cittadini avevano tutto il diritto di conoscere.
Non è stata la prima volta. Dopo aver già da un po’ una radio nazionale sotto la guida di Paolo Vigevano. Nel 1976 era stato Pino Pietrolucci con Claudia Rittore a proporre a Marco Pannella l’avvio di una radio che mosse i suoi primi passi senza uscire dai confini del Lazio. Quella di Tortora fu una delle tante battaglie dei radicali sempre a fianco di chi annaspa dentro la propria vita. E la radio a dare loro voce.
Ricordiamo le battaglie sui diritti, quelle per cui forse nemmeno i più giovani hanno bisogno di avere spiegazioni. Aborto e divorzio, giustizia, fame nel mondo: anche un cantante popolare come Claudio Villa si mise a lottare dentro quella radio, nata a Roma in un appartamento a ridosso di Villa Pamphili. Quindi la battaglia radicale
del 1980 sui diritti dei transessuali. È stato il supporto della radio che ha permesso di sfondare nel mondo dei cattolici dove il ddl Zan oggi fatica non poco a fare. Nel film Onde radicali è Francesco Rutelli ai giorni nostri (ripreso più volte giovanissimo nei filmati d’epoca) che racconta quella lotta che portò nel 1982 ad approvare la legge sul diritto a cambiare sesso.
È tutto un arrivare sempre e prima degli altri, quando si parla di Radio Radicale. E non si esagera a definirla un’antesignana dei social network. Basta ascoltare nel film il racconto di Roberto Giachetti sulla storia di quella che venne definita Radio Parolaccia.
Questa volta siamo nel 1986 e Radio Radicale non ha più ossigeno finanziario per continuare a trasmettere. Marco Pannella ne pensa una delle sue: decide di sospendere tutte le trasmissioni per aprire il microfono agli sfoghi degli ascoltatori. Altro che Facebook. Altro che Twitter. Quei messaggi registrati sulla segreteria vennero montati sulle pizze da Giachetti e Rita Bernardini e trasmessi in radio a ciclo continuo. Il finanziamenti fu ottenuto.
«Dio è grande e si serve anche di Radio Radicale per trasmettere» commentò una volta con la sua arguzia Giulio Andreotti. Pannella fu altrettanto arguto nel 1982 a decidere di conferire un’identità inequivocabile alla radio: avrebbe trasmesso la musica delle messe da requiem. Solo e soltanto quella. Nemmeno Radio Maria sarebbe arrivata a tanto. Chi girando per le frequenze sentiva il requiem non aveva dubbi di essere incappato in Radio Radicale. «Bello choc per noi abituati a Guccini» ricorda ridendo Giachetti ripreso ai giorni nostri.
Va avanti e indietro nel tempo la macchina da presa del regista Pannone. E ci mostra una Emma Bonino contemporanea che commenta le battaglie della giovanissima Bonino: facile vedere come la sua grinta abbia attraversato indenne quasi mezzo secolo di storia.
C’è anche Leonardo Sciascia nelle immagini di Onde radicali. Lo scrittore siciliano lancia appelli per la liberazione di Giovanni D’Urso. E alla sua voce per la liberazione del magistrato rapito nel 1978 dalle Br si sovrappone quella di Giovanni Paolo II.
C’è ancora molto di più in questo film che non poteva certo dimenticare Massimo Bordin, direttore storico (per quasi vent’anni) della radio che dal 2014 è nelle mani di Alessio Falconio. La voce roca di Bordin è stata l’identità di Radio Radicale dopo la musica delle messe da requiem. C’è ancora e molto di più da vedere, anche se quando sei lì a guardarlo vorresti che il film raccontasse ancora e ancora altri momenti di quella storia che ormai appartiene ad ognuno di noi.
Noi, quando la visione in anteprima è terminata, la sensazione che il film stesse andando avanti ancora l’abbiamo avuta: si sono accese le luci e ci siamo trovati nella sede della Fondazione Coscioni, accanto a Maria Antonietta, speaker di Radio radicale e, prima ancora, moglie di Luca che per i radicali e la loro radio lottò fino all’ultimo respiro delle sue sempre più deboli forze.