CRIPTOVALUTA E FUTURO I BITCOIN «VERDI»
Era il 2009 quando fu «archiviato» il primo blocco di bitcoin. Allora nessuno poteva sapere come sarebbero andate le cose e in pochi hanno creduto veramente nel progetto, comprando o cominciando a «minare» la nuova moneta virtuale. Negli anni, l’interesse per la più blasonata delle criptovalute è andato crescendo e oggi non solo esistono vere e proprie aziende che hanno fatto del «mining» la propria attività principale, ma la moneta di Satoshi Nakamoto si è conquistato un posto come asset class anche nei portafogli degli investitori.
Al suo debutto, un bitcoin valeva appena 1 centesimo di dollaro (0,01 dollari), mentre ora ne vale circa 50mila (è arrivato a toccare un massimo a 64mila lo scorso aprile). E di pari passo con l’aumento di valore è cresciuto anche il consumo di energia elettrica necessaria per produrre bitcoin. Basti pensare che oggi, secondo il Cambrigde Centre for Alternative Finance, il consumo annualizzato di energia di bitcoin è di circa 97 terawattora (ha raggiunto picchi di 150 terawattora), più o meno una quantità simile a quella che viene usata dalle Filippine. Quanto basta
DI GABRIELE PETRUCCIANI
per alimentare le polemiche sulla dannosità del bitcoin per il clima e per l’ambiente. Ma il mondo delle criptovalute ha già avviato da tempo iniziative per dare una svolta green al bitcoin, con il mining che in futuro potrebbe diventare «sostenibile» al 100 per cento.
Il valore della moneta virtuale creata da un gruppo di informatici che si nascondono dietro lo pseudonimo Satoshi Nakamoto è cresciuto talmente tanto da attirare l’attenzione della massa, vogliosa di guadagni stratosferici. Così in tanti si sono avvicinati al cosiddetto mining, cioè l’attività che permette di «mettere in sicurezza» una transazione e al tempo stesso produrre bitcoin. a 6,25 bitcoin ogni 10 minuti). Ma come si fa a verificare, archiviare e mettere in sicurezza una transazione? Occorre trovare una «chiave», e per riuscirsi i minatori utilizzano la potenza di calcolo del proprio (o dei propri) computer. Volendo semplificare è come se si dovesse trovare una password, per esempio composta da 10 cifre tra numeri e lettere, per aprire una cassaforte. Utilizzando il computer è possibile provare molto velocemente tutte le possibili combinazioni, fino a trovare quella giusta. Chi riesce a trovare prima di altri la «password» ottiene una ricompensa.
In origine, per fare mining bastava un semplice computer e una quantità di energia elettrica davvero irrisoria. Oggi, invece, estrarre un solo bitcoin è diventato più
nerazione) e un maggiore consumo di energia, oltre a una elevata potenza di raffreddamento per mantenere l’hardware costantemente in esecuzione. Ed è per questo che l’estrazione di bitcoin ora avviene in «data center» di grandi dimensioni di proprietà di aziende o gruppi di persone (il mining domestico è praticamente scomparso). Addirittura, si stima che occorra un consumo medio annuo di 12.500 dollari (l’equivalente circa di 9 anni di consumo di energia elettrica) per «produrre» un solo bitcoin (oggi vale 50mila dollari). E a questo consumo eccessivo di energia (circa 97 terawattora l’anno) è associata l’emissione di oltre 22 milioni di tonnellate di anidride carbonica ogni anno (stime elaborate dalla Technical University di Monaco e dal Massachussets Institute of Technology). Al «danno» da emissioni per l’ambiente, poi, va aggiunto anche quello relativo all’accumulo di hardware. Stando a quanto riportato dal New York Times, un economista di Parigi, Alex de Vries, stima che ogni anno e mezzo circa la potenza di calcolo dell’hardware di mining raddoppia, rendendo le vecchie macchine obsolete. Secondo i suoi calcoli, all’inizio del 2021, il bitcoin da solo stava generando più rifiuti elettronici di molti
Paesi di medie dimensioni.
Ma se da un lato è vero che per la produzione di bitcoin si consumano circa 97 terawattora (Twh) l’anno di energia, dall’altro va anche considerato che, secondo i calcoli di Galaxy Digital (società americana di servizi finanziari e gestione degli investimenti), ci sono aree di business che consumano più del doppio: l’industria dell’oro, per esempio, consuma 240,61 terawattora l’anno di energia, mentre il settore bancario viaggia intorno ai 238,92.
E ancora, diversi studi (il Global Cryptoasset Benchmarking dell’Università di Cambridge, per esempio), mostrano un aumento nell’utilizzo di elettricità originata da fonti rinnovabili per la produzione di bitcoin (idrogeno, solare ed eolico oggi costituiscono il 70% del mix energetico). D’altronde, tutte le fonti di energia alternativa soffrono di quello che viene chiamato «Renewable Curtailment»: in pratica l’energia prodotta viene a un certo punto rifiutata dalla rete elettrica per evitare sovraccarichi. Le soluzioni per ridurre la produzione in eccesso di energia rinnovabile e per mantenere l’equilibrio tra domanda e offerta sono molto costose. I minatori, invece, possono sfruttare questa energia in eccesso, evitando gli sprechi e favorendo la decarbonizzazione. Va inoltre considerato che con il Crypto Climate Accord (è ispirato all’Accordo di Parigi sul clima) tutto il mondo delle criptovalute è impegnato nella transizione green al 100%. Proprio in quest’ottica, mentre molte criptovalute abbandonano il sistema di validazione delle transazioni cosiddetto «proof of work» per migrare verso il «proof of stake» (richiede un minor dispendio di energia), stanno prendendo piede diversi progetti per installare nuove fabbriche di bitcoin alimentate completamente da fonti rinnovabili. Per esempio, Jack Dorsey, fondatore di Twitter, investirà 5 milioni di dollari per un sito di mining negli Usa alimentato ad energia solare. Un altro tassello alla transizione green del bitcoin.