I NOSTRI RAGAZZI E IL CHI OGNI GIORNO INSEGUE UN’IDENTITÀ HA VISSUTO UNA “PICCOLA FINE”
Nel giorno del grande server down, che ha messo fuori uso WhatsApp, Facebook e Instagram, ragazze e ragazzi di una classe delle medie nel centro di Roma sono andati a letto dandosi appuntamento per la mattina dopo a scuola un’ora prima del solito. Avevano bisogno di recuperare. Il senso di privazione delle comunicazioni sociali aveva aperto un vuoto nelle loro vite che andava subito colmato. Alla domanda di qualche genitore: «Ma non potevate parlarvi per telefono?», la risposta è stata un’alzata di spalle. Tutto ciò che non avviene sulla
Rete, e soprattutto non è accompagnato dall’immagine, è out.
L’immagine, e il suo culto, è il dominus del nostro tempo. Un tempo i ragazzi non vedevano l’ora di farsi il motorino, ora la loro meta è un account social. E si spiega. Un tempo si diventava grandi conquistando la mobilità. Oggi serve l’identità. Che a questa età – e anche per molto tempo dopo, ahinoi – è fatta di “immagine”. In senso letterale vuol dire come mi pettino, come mi vesto, a chi somiglio. Ma in senso metaforico significa come appaio, come mi giudicano, come mi sento. Questa gara per l’”immagine” è fonte di grande stress. Lo è per noi adulti, figuriamoci per un adolescente. Può dare ansia, turbe, terrore addirittura di essere sottoposti ogni mattina al giudizio dei coetanei. Anche perché la partita si svolge in un’arena digitale (e virtuale) che ha sostituito l’esperienza come metodo di costruzione della personalità.
In un libro che cito spesso perché mi è molto piaciuto filosofia e la vita etica) Piergiorgio Donatelli spiega con un esempio questo «elevato grado di dipendenza dagli altri», il bisogno di «appagamento che riceviamo dall’approvazione altrui», la sensazione di essere esposti continuamente al confronto secondo un nuovo modello reputazionale. «Un episodio della serie televisiva Black Mirror ci presenta una società in cui ciascuno vota con lo smartphone la popolarità degli altri di cui legge le generalità mediante le lenti impiantate sugli occhi. Un punteggio alto è richiesto per qualsiasi significativa attività, mentre un punteggio basso impedisce di avere relazioni con amici e l’accesso a servizi e lavori qualificati». La protagonista dell’episodio perde talmente tanti punti a causa di una serie di disavventure che finisce sempre più in basso, sempre più ai margini, fino al carcere. È un racconto distopico (anche se il riconoscimento facciale è già tra noi). Ma penso che in fin dei conti i nostri ragazzi a cavallo della pubertà si sentano proprio così: ogni mattina un pezzo del loro cervello comunica allo stomaco una sensazione di disagio e tensione, come quella che si prova prima di un esame: come mi giudicheranno oggi? Sarò popolare o sfigato? Guadagnerò l’ammirazione dei miei compagni o mi prenderanno in giro?
È uno strano gioco. Ne hanno paura, al punto che c’è chi non regge la prova ed è vinto dall’ansia. Ma allo stesso tempo non ne possono fare a meno. E se sparisce Instagram per un paio di ore, è una piccola morte.