L’INCONTRO
Qualche giorno fa lo scrittore Andrea Di Consoli confessava a Guido Vitiello, via Facebook, che mentre scriveva un articolo riguardo un politico «capriccioso e narcisista» ha prima usato e poi cancellato l’espressione «primadonna». Non sa se ha fatto bene o male: «Si tratta di autocensura o progresso civile?». Vitiello risponde: «Un po’ di autocensura è progresso, si chiama disagio della civiltà (Freud) o processo di civilizzazione (Elias). Troppa autocensura, al contrario, è tirannide, e prepara il terreno a un ritorno del represso in grande stile».
Guido Vitiello è così. Colto e spiritoso, dallo spirito critico tagliente e gentile, come un Woody Allen dei primi film, alla Io e Annie, dove compare l’intellettuale Marshall McLuhan. Vitiello parla come scrive e scrive come pochi altri in termini di esattezza e chiarezza. Lo fa per gli amici stretti e quelli larghi su Facebook, oltre ai lettori del Foglio e di Internazionale dove cura la rubrica Il bibliopatologo risponde, dove ha iniziato ad analizzare tic, manie e stravaganze di chi ama i libri. Psicanalista abusivo, auto-denunciato e di successo, nel nuovo libro ha messo Il lettore sul lettino (Einaudi) dove protagoniste sono le sue e nostre nevrosi. L’abbiamo intervistato per conoscerle meglio.
Quando entra in casa di altri, cosa la colpisce della libreria?
«Gli accostamenti tra singoli libri, ma ancor più quelli tra intere sezioni di una libreria, se è divisa per temi. Sono come le libere associazioni della psicoanalisi: più sembrano casuali, più ci rivelano qualcosa del proprietario della libreria e del suo paesaggio mentale, magari qualcosa che neppure lui sospettava. Perché, per esempio, i libri di cucina accanto ai romanzi gialli? Forse il nostro amico associa le letture più appassionanti a un pasto da trangugiare con voracità, e al tempo stesso vuole esprimere il suo disprezzo per la letteratura di consumo: sarebbe un bel sintomo nevrotico, una soluzione di compromesso tra due impulsi in lotta. Forse è solo in cerca di spunti per avvelenare la moglie con il polpettone».
Lei sostiene che un libro è meglio regalarlo che prestarlo. Si è pentito di averne prestati in passato?
«Tutti i libri che ho prestato, li ho prestati per bieche strategie di corteggiamento. In quella fase è sconsigliabile attirarsi sospetti di tirchieria, il meno attraente dei difetti umani, ed è difficile spiegare che la riluttanza al prestito, nel caso dei libri, non ha a che fare con l’essere avari. È legata al fatto che percepiamo i libri come cose molto intime, come la biancheria o lo spazzolino da denti. Come che sia, andava a finire che non rivedevo più né la ragazza né il libro. Ce n’è uno a cui penso ancora, 15 anni dopo: Flatlandia, la favola geometrica di Edwin Abbott Abbott. L’ho ricomprato, ma chi mi restituirà le mie sottolineature? Avrei potuto fare come il personaggio di Philip Roth che sposa una donna insopportabile solo per rientrare in possesso della copia annotata di un libro che le aveva prestato. Ma sarebbe stata una soluzione punitiva». Regalava molti libri sperando che potessero diventare galeotti?
«Ho fatto anche di peggio: sistemare
rubrica sulle nevrosi dei lettori. Quali casi l’han colpita più di altri?
«C’è il caso del lettore che compra libri usati ma poi passa giorni interi a cancellare tutte le sottolineature del proprietario precedente. La bibliotecaria che ricorda la collocazione di tutti i libri ma non riesce a ricordare il nome di uno solo dei suoi ex fidanzati. C’è il mistero della mano che annota il nome dell’assassino sul frontespizio di tutti i libri gialli di una biblioteca, per il gusto di rovinare la lettura agli altri. Una ragazza mi scrisse perché aveva cominciato a frequentare un uomo che schedava le proprie letture su fogli Excel, annotando la data di inizio, la velocità media di lettura, il numero di pagine completate ogni giorno. Era preoccupata facesse lo stesso con i rapporti sessuali». Quali sono i libri più patologici della sua libreria?
«Più che di libri patologici parlerei di libri patogeni. Sono quei libri che pagina dopo pagina, senza che tu te ne avveda, ti trasmettono il loro morbo. Salvo rari casi, per fortuna, si tratta di malattie immaginarie. A me è accaduto, quand’ero ventenne e suggestionabile, con La montagna incantata di Thomas Mann: dopo settecento pagine, sono emerso dal sanatorio Berghof convinto di avere più acciacchi di un ottuagenario. Un mio amico, invece, ha contratto la malattia cronica del Finnegans Wake: un giorno ha messo piede nell’ultimo libro di James Joyce e non ne è uscito più. Dovremo andarlo a cercare con gli elicotteri e i torcioni. Parliamo spesso del potere che hanno i libri di curarci – è l’idea di fondo della biblioterapia – dimenticando che dalla stessa fonte deriva il loro potere di intossicarci. Magia bianca e magia nera, guarigione o malocchio. Mia madre, riordinando la mia stanza, infilava in angoli irraggiungibili i libri di Jules Laforgue, il grande amore poetico della mia adolescenza. Era convinta che mi rendessero un ragazzino depresso e nichilista. Col senno di poi, non aveva tutti i torti».
Il bovarismo è una delle forme più note di bibliopatologia. C’è un libro letterario che ha influenzato il suo stile di vita o modo di pensare?
«Negli anni della mia formazione ho letto soprattutto poeti, non romanzieri. E leggendo i poeti è più facile identificarsi con l’autore, diciamo pure con l’io lirico, che con dei personaggi. Così c’è stata una fase in cui aspiravo a essere una miniatura di Eugenio Montale, e come Montale pensavo che la vita ormai non avesse più nulla in serbo per me. Una volta incontrato il male di vivere, credevo che la mia missione generosa consistesse nel far vivere gli altri, gli illusi per cui era ancora possibile la felicità. Il guaio è che avevo quattordici anni. Immaginate che guastafeste. Qualche amico ancora me lo rinfaccia».
Lei è cresciuto in una casa piena di libri. Sua madre ci metteva dentro fiori essiccati, suo padre ricordi di carta. La sua bibliofilia è anche amore filiale.
«Mio padre mi rimproverava spesso per la mia riluttanza a buttar via le cose, e per la mia tendenza a considerare qualsiasi cosa un ricordo. Dopo la sua morte ho scoperto che aveva conservato tutte le sue agendine dagli anni Sessanta a oggi: era più sentimentale di me, ma lo aveva nascosto. Nei libri metteva i bigliettini che mia sorella e io gli disegnavamo per il compleanno, prefigurando il giorno in cui sarebbe stato felice di ritrovarli per caso. A questo punto, ormai, sono bombe a orologeria che esploderanno tra le mie mani».
Sui social molti amano mostrarsi mentre leggono: il rapporto tra libro e lettore diventa a tre. Il triangolo fa bene o male alla coppia lettore-libro?
«Fa male alla coppia tradizionale. I lettori sono monogami seriali, si immergono in un libro e non ne guardano
ALTRI SAGGI DI GUIDO VITIELLO. DAL BASSO, IN SENSO ORARIO: LA COMMEDIA
DELL’INNOCENZA (SOSSELLA, 2008), UNA VISITA AL BATES MOTEL (ADELPHI, 2019), HA VISTO IL MONTAGGIO ANALOGICO? (LAVIERI, 2011, SCRITTO CON ANDREA PERGOLARI) altri finché non l’hanno finito. Quell’immersione richiede una certa capacità di apnea. Quando si sente il bisogno di tornare costantemente a galla per smerciare sulla banchina digitale i tesori ripescati tra le pagine, è segno che si è persa l’abitudine di andare in profondità. Lo stesso per il cinema. Sta prendendo forma un tipo di lettore inedito, nasceranno libri concepiti per lui».
I dispositivi elettronici come gli iPhono frammentano la lettura profonda che è necessaria per i libri, la cancel culture vuole censurare testi che usano parole giudicate politicamente inappropriate. Fa più danni la censura o la cultura dell’istantaneità social?
«La cancel culture danneggia senz’altro i libri del futuro, perché rende molti autori, specie accademici, pavidi e circospetti fino all’autocensura. Ma non danneggia i libri del passato, per i quali, al contrario, gli anatemi sono sempre stati un ottimo stratagemma promozionale.