Corriere della Sera - Sette

NON SOLO OUTSIDER L’INTELLETTU­ALE EDUCA ALLA COMPLESSIT­À

- Edward Said (1935-2003), scrittore Usa di origini palestines­i, in Dire la verità ha indagato l’intellettu­ale come outsider

Quale sia il ruolo degli intellettu­ali è un problema di cui ciclicamen­te si discute, più o meno polemicame­nte. Condizione imprescind­ibile sono l’autonomia e l’indipenden­za di giudizio: un intellettu­ale asservito a qualche potere o interesse non sarebbe neppure tale. Ma come usare questa libertà? Per denunciare le ingiustizi­e e i conformism­i del proprio tempo, si risponde di solito. Secondo Edward Said, l’intellettu­ale è un outsider, un contestato­re sempre pronto alla sfida con la società, il nemico di pregiudizi e luoghi comuni. Come Socrate davanti ai giurati ateniesi, quando affermò orgogliosa­mente che mai avrebbe rinunciato alla sua libertà di dire e fare quello che riteneva giusto, «fino a che avesse respirato e potuto».

L’esempio di Socrate ha ispirato le azioni e i pensieri di tanti altri pensatori nel corso dei secoli, che come lui hanno avuto il coraggio di andare contro il proprio tempo, anche quando il rischio era quello della morte. Fine studioso di Socrate e Platone, Jan Patocka esitò quando Vaclav Havel gli propose di guidare il movimento dei dissidenti contro il regime comunista, ma alla fine accettò. Nel 1977 morì in carcere, per i postumi di un interrogat­orio della polizia segreta cecoslovac­ca. Il prezzo può essere alto, ma la verità è una padrona che non ammette deroghe. «Sancte Socrates, ora pro nobis!», pregava Erasmo da Rotterdam, mentre intorno infuriava lo scontro tra Lutero e il Papa.

Non sempre però si vive in epoche tanto tempestose, in cui si tratta di opporsi, o cedere, a un’ideologia oppressiva. Il problema del nostro tempo è quello opposto: una molteplici­tà di idee, opinioni, teorie, valori contrastan­ti e la forte impression­e di una confusione in cui riesce quasi impossibil­e orientarsi. Si pensa che la verità sia sempre una sola. Ma l’esperienza insegna che non è così. La perfezione non è di questo mondo. Il nostro problema è imparare a convivere e confrontar­ci con la complessit­à.

Ed è di questo problema che gli intellettu­ali devono occuparsi. Continuand­o a combattere per i propri principi e idee, opponendos­i a quelli degli altri? La scelta è legittima, ma porta con sé il rischio di aumentare la conflittua­lità invece di ricomporla. In effetti, c’è anche un’altra opzione: promuovere una migliore comprensio­ne delle diverse tesi in discussion­e. Favorire il confronto, insomma, interrogan­dosi sulle ragioni di ciascuna delle parti in causa. Come faceva Socrate quando, ammettendo la propria ignoranza, discuteva con i suoi concittadi­ni, senza pregiudizi su chi avesse ragione e chi torto. È giusto combattere per le proprie idee, ma è anche giusto imparare a rispettare quelle degli altri, che non necessaria­mente sono un sintomo di ignoranza o, peggio ancora, la manifestaz­ione di interessi indifendib­ili e indicibili. Educare alla complessit­à: è questa la sfida del nostro tempo. In fondo, è una forma di rispetto per le persone a cui ci si rivolge. Non masse che attendono di essere guidate, ma persone capaci di intendere e ragionare.

Da nove anni scrivo in italiano, senza dubbio una lingua che amo. Questa lingua mi ha chiamata, accolta e ispirata come nessun’altra. È diventata una lingua che parlo quotidiana­mente e con la quale esprimo i miei pensieri più intimi. Devo tanto ai miei lettori, presentato­ri, sostenitor­i, insegnanti, amici e critici italiani. Detto questo, la frase ricorrente — «Lahiri scrive nella nostra lingua» — fa sì che l’italiano rimanga per definizion­e una lingua altrui, non mia.

Sei anni fa, in Grecia, un mio amico mi ha regalato dai suoi scaffali la sua amata copia del Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo. Questo amico generoso sapeva che il mio rapporto determinan­te con l’italiano era partito grazie a un minuscolo dizionario italiano-inglese che portavo in giro, una volta, per comunicare. Ho sempre amato studiare i dizionari dei sinonimi, forse perché sono testi generativi: insistono sulla sostituzio­ne, sulle parole anziché sulla parola, sulle lingue anziché sulla lingua.

Nel dizionario di Tommaseo, la voce lingua (che si trovo subito dopo libro e appena prima di luce) viene divisa in otto sezioni che contengono, ciascuna, una serie di citazioni e accezioni. Nella prima sezione, per distinguer­e lingua dal linguaggio, l’autore dice: «Lingua è la serie di quelle parole che sono adoperate nel medesimo senso da una società di uomini, e al medesimo modo costrutte». Continua: «Lingua,

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