«MIO FRATELLO, CHE FU UCCISO ALL’ALBA SENZA UN PERCHÉ»
Salvatore Corigliano aveva 27 anni quando qualcuno gli sparò tre colpi
di pistola a Milano: il delitto avvenne in diretta mentre il ragazzo era al telefono. Amelia, la sorella, ha lottato per trovare il colpevole: «Ogni volta che parlo di lui sento un cane dentro che mi morde»
gni volta che ne parlo sento un cane dentro che mi morde. Mi capita ancora di chiamarlo, come se fosse qui». Invece Salvatore Corigliano non c’è più. Qualcuno ha deciso di ucciderlo in maniera barbara, all’alba del 4 gennaio del 1999, a Milano in piazza Esquilino. Centrato da tre colpi di pistola nell’edicola che gestiva da qualche tempo.
Amelia è la sorella minore di Salvatore e ricorda tutto, di quel giorno che ha deviato almeno quattro vite: la sua, quella dei genitori e della fidanzata. La corsa al San Carlo, le speranze vane perché una pallottola gli era entrata nel petto, una sopra l’occhio; due giorni dopo, al Policlinico, la morte. «Il primo colpo lo aveva istintivamente parato con il braccio: era un karateka, Salvatore. Chi lo ha ammazzato voleva assicurarsi che non potesse sopravvivere».
Per riannodare i fili di questa vicenda, resa ancor più insopportabile da indagini rimaste al palo, restano pochi capisaldi. Salvatore, 27 anni, era uno studente di Ingegneria meccanica. Gli piaceva fare le cose per bene, rifiutava i voti bassi a costo di allungare i tempi accademici. Alle quattro del mattino si svegliava per scaricare le cassette coi resi e le copie di giornata, in quell’edicola già gestita da un tizio scorbutico e che lui aveva rilevato, su indicazione di un amico, facendola rifiorire. L’idea era di dare una mano ai genitori – tramviere il padre, casalinga la madre – nel mantenere i suoi studi e quelli di Amelia, che gli dava il cambio nel pomeriggio. Due bravi ragazzi. Il resto della vita di Salvatore somigliava davvero al libro Cuore :le attività di animatore nella parrocchia San Giovanni Bosco, il volontariato al Pio Albergo Trivulzio. E la fidanzata, Isabella, con la quale iniziare a pensare al matrimonio.
Mentre sfoglia le foto di Salvatore a cavallo, scattate in Calabria a casa del nonno da cui aveva ereditato il nome,
IL GIOVANE, CHE GESTIVA IL CHIOSCO DEI GIORNALI E STUDIAVA INGEGNERIA MECCANICA, MORÌ DUE GIORNI DOPO L’AGGUATO
Amelia non ci tiene a fargli il «santino», nonostante gli volesse un bene dell’anima e, nel gruppo giovani, per quanto era coccolone e affettuoso lo avessero soprannominato Winnie the Pooh. È disposta ad accogliere qualunque verità. Non cova rabbia ma rassegnazione: ha letto tanto sull’omicidio, poco o nulla su Salvatore.
NESSUN TESTIMONE
Per la polizia, il caso Corigliano presentava una dinamica semplice: tre colpi di 38 special da distanza ravvicinata. Nessuna colluttazione, nessun testimone. Anzi, sì: gli inquirenti stabilirono che l’omicidio era avvenuto in diretta telefonica. Alle 6 e 26 di quel mattino, la vittima stava parlando con una ragazza che gli inquirenti ritenevano avesse un debole per lui «e sinceramente non lo so» dice ora Amelia
«se fosse infastidito, lusingato o avesse ceduto alle lusinghe. Di queste cose non si parla con una sorella». Si scavò nella vita di quella donna e del suo compagno, un uomo dal passato tribolato, ipotizzando un delitto passionale. Era una pista promettente, ma niente da fare: i riscontri reggevano ed esclusero ogni coinvolgimento. Agli atti restò il racconto di quell’ultima conversazione: Salvatore, secondo la testimone, avrebbe detto a un cliente «…È ancora presto, non c’è ancora niente…», per poi esclamare improvvisamente: «No, no, no!»
Sui giornali, frattanto, si lavorava di inventiva per darsi ragione del nono morto ammazzato in nove giorni in città: l’allarme sociale per le rapine ai commercianti, la caccia agli extracomunitari, la pista del tossicodipendente in cerca di soldi, perché la piazza era fulcro di spaccio e consumo di droga. Si scoprì che Salvatore aveva sventato, mesi prima, una rapina maldestra: poteva essere stata una vendetta.
Anche la suggestione di un protettore furibondo, perché il ragazzo avrebbe avuto in animo di togliere dalla strada una prostituta. Qualcuno suggerì che fossero state sottratte videocassette porno, ma Amelia poté rientrare in edicola solo dopo il dissequestro del chiosco: troppo tardi, per fare mente locale. «All’inizio, su consiglio della questura, mi ero prestata a parlarne in pubblico», racconta Amelia. «Andai a una trasmissione della Raffai, su Retequattro, per sentirmi raccontare da un criminologo la sequenza dettagliata dell’assassinio. Fu uno strazio e non servì a nulla: arrivarono solo telefonate di mitomani.
FURONO SEGUITE PISTE DIVERSE: SEMBRA CHE SALVATORE VOLESSE SALVARE DALLA PROSTITUZIONE UNA RAGAZZA APPENA CONOSCIUTA
su un punto, per chi si porta dietro un caso irrisolto: quanto dedichiamo, della nostra vita, al pensiero di cercare risposte? Non trovo giusto farlo diventare un lavoro. Perché se mai si trovasse il responsabile, non lenirebbe alcun dolore e non invocherei la legge del taglione. Se qualcuno compie un atto del genere, vuol dire che ci sono tante cose che non hanno funzionato. Anche nella sua vita».
LA DECISIONE
Negli incontri in carcere, ad Amelia capita di trovare detenuti che la riconoscono così, a pelle, senza sapere nulla, come persona cui è capitato di qualcosa di orrendo. Tendere la mano verso gli altri è il suo modo di testimoniare l’essere cittadina di un mondo che le ha riservato un fratello morto senza un perché. Ma non si è del tutto arresa: cinque anni fa, è tornata per l’ultima volta in questura. Le era venuto in mente il volto di un cliente strano, che aveva rimosso dai pensieri. Lo ha trovato, seguìto e letto il nome sul campanello. Le fu detto che non era la persona giusta. Per riaprire il caso di Salvatore Corigliano, come è accaduto con Nada Cella in questi mesi, da più parti hanno caldeggiato l’ingaggio di un avvocato o di un criminologo intraprendente. Ma è giusto pagare per provare a trovare la verità? «Ne abbiamo discusso in casa, e sa cosa? Nessuna indagine penale potrà servire a rendergli giustizia. Salvatore era vita, non è stato la sua morte. Anche le sue cose, a parte una scatola con qualche ricordo, le foto e il libretto universitario, le abbiamo date via: così sono tornate a vivere da qualche altra parte». Se uno Stato deve qualcosa a qualcuno, è a persone così.
AMELIA HA LASCIATO GLI STUDI IN FILOSOFIA, ORA FA L’ASSISTENTE
SOCIALE NELL’OSPEDALE IN CUI MORÌ SALVATORE