ANNI CINQUANTA E SESSANTA
L’edificio Ras di corso Italia e via Santa Sofia,
Milano, progettato da Gio Ponti e Luigi Portaluppi, 1958-1962, in fase di pesante ristrutturazione; sotto, il grattacielo Ina in corso
Sempione di Piero Bottoni, 1953-1958
LA «GRANDIOSA MACCHINA»
Sul fronte della casa popolare, gli anni 50 sono lo scenario di una delle operazioni edilizie più importanti e imponenti del Novecento: il piano Ina-Casa (conosciuto anche come piano Fanfani), due settennati, dal 1949-1963 che portarono alla realizzazione di 350 mila alloggi in 5 mila comuni di tutta Italia. Furono coinvolti 17 mila architetti, tra questi tutte le più grosse menti progettuali dell’epoca, «Una grandiosa macchina per l’abitazione», la definì l’architetto e urbanista Giuseppe Samonà. «In un’Italia che aveva già cominciato una ricostruzione frenetica senza aspettare i piani regolatori, l’Ina-casa realizzò quartieri organicamente autonomi» spiega Orsina Simona Pierini. «L’intento era duplice: dare una vera casa a chi non l’aveva mai avuta o l’aveva persa nelle distruzioni della guerra e generare lavoro non solo per gli operai ma anche per gli architetti, favorendo una loro riconoscibilità professionale. La scelta politica fu chiara: mentre i sistemi di prefabbricazione, già conosciuti, furono applicati per l’industria, qui si impose di continuare a costruire secondo tecniche edilizie tradizionali, aumentando la mano d’opera e favorendo le piccole e medie imprese locali. Il risultato ha dato esiti architettonici inaspettati: molta varietà nel linguaggio, nei dettagli dei materiali, nella ricchezza compositiva. Una strada ben diversa dai grandi ensemble francesi che hanno subito un veloce decadimento».
Le chiamavano città autosufficienti. E ancora oggi nei tessuti urbanistici confusi dei grandi centri i quartieri Ina-casa sono ben riconoscibili, come il Tiburtino o il Tuscolano a Roma, l’Harar Dessié o il Feltre a Milano, La Loggetta a Napoli, il Forte Quezzi a Genova: tutti diversi, perché, secondo le direttive di Adalberto Libera coordinatore del piano, ognuno doveva essere il risultato delle caratteristiche del luogo
«IL PIANO INA-CASA PER LE PERIFERIE PORTÒ A ESITI ARCHITETTONICI
INASPETTATI: LE CHIAMAVANO “CITTÀ AUTOSUFFICIENTI”»
questo trascurare il rispetto estetico. «Il restauro» riprende Carughi «è sempre di più una materia che incrocia le competenze di architetti, storici dell’arte, ingegneri strutturali, matematici, chimici. Ma è una grande occasione di specializzazione professionale per il futuro, da chi dirige il cantiere al semplice operaio. E una via per ridurre il consumo del territorio con nuove costruzioni».
LE CITTÀ POST PANDEMIA
Che cosa ci può lasciare come eredità quel periodo? «Forse un senso di umanità, di vicinato che ora torna come un’esigenza prorompente nell’idea di città post pandemia» dice Gemma Belli, docente di architettura all’Università di Napoli, che ha curato insieme con Andrea Maglio un numero speciale di Storia dell’urbanistica dedicato al rapporto tra cinema e città. «Non solo i registi del neorealismo e della commedia hanno raccontato gli aspetti sociologici del vivere urbano; gli stessi architetti hanno visto nella macchina da presa un mezzo espressivo che completava il loro pensiero. Come Luigi Moretti o Giancarlo De Carlo. Ma agli studenti del corso di storia dell’urbanistica consiglio sempre un altro filmato, La forma della città di Pasolini». Qui lo scrittore-regista spiega a Ninetto Davoli come inquadrare da lontano la città storica di Orte, rivelando però, con un campo più ampio, l’impatto visivo di una casa popolare fuori contesto, lontana da quel costruito che fa parte di un antico sentire collettivo. Atmosfera che nel video Pasolini poi ritrova sorprendentemente in una città nuova come Sabaudia, concepita durante il periodo fascista. In questa apparente contraddizione, in questo dibattito pubblico su come ridisegnare il rapporto con il territorio (che, Pasolini testimonia, è anche tormento interiore), si racchiude, oggi come 70 anni fa, la sfida dell’abitare.