L’ARCHITETTO UCCISO E IL PICCOLO ARON: UNA CHAT, DUE MISTERI
Roberto Mottura, 49 anni, viene freddato nel giugno 2020 da ladri penetrati di notte nella sua villetta. Le indagini portano a tre albanesi, ma poi due di loro vengono rilasciati. Dal cellulare di un quarto uomo emergono alcuni messaggi che portano a un crollo in cui perse la vita un bimbo di 4 anni
uei nastri bianchi e rossi che delimitano la scena del crimine non ci sono più. Ma un foglio sulla porta indica che la casa è ancora sotto sequestro. È una villetta a schiera su due piani, l’ultima di una serie color crema in via del Campetto 33 a Piossasco, comune di neppure ventimila abitanti nella città metropolitana di Torino. Lì, durante una rapina, viene ucciso con un colpo di pistola l’architetto Roberto Mottura, 49 anni. È la notte tra l’8 e il 9 giugno 2020. A settembre, sul finire dell’estate, i carabinieri arrestano tre albanesi. I loro soprannomi sono Miri, Gimi e Geri. Ma sui documenti è scritto Emirjon Margjini, Mergim Lazri e Flaogert Syla: hanno 30, 24 e 26 anni. Il primo vive a Torino, gli altri due a Santa Maria Capua Vetere. Miri avrebbe organizzato il colpo, Gimi e Geri sarebbero partiti dalla Campania perché interessati al «lavoro». Il caso sembra chiuso. «Adesso spero che buttino via la chiave» si sfogano i genitori di Roberto, mamma Silvia e papà Attilio.
Ma un mese dopo le carte si mescolano e due indagati su tre vengono rimessi in libertà. In cella resta solo Miri. A tradirlo è una chiacchierata con un amico a cui racconta che era successo un «casino», che era stata «uccisa una persona» e che era stato lui a fare quella «caz…». I riscontri contro Gimi e Geri, invece, sono l’incastro di tabulati telefonici e intercettazioni. Uno schema che però non convince. A novembre entrambi lasciano il carcere. La soddisfazione di papà Attilio si trasforma in rabbia: «Escono di prigione uno dopo l’altro, ci manca solo che lascino andare pure chi ha sparato». Lo consola sapere che i carabinieri stanno ancora indagando. Non hanno mai smesso, per la verità.
L’IPOTESI DEL QUARTO UOMO
L’inchiesta infatti riparte. Riparte da quella notte d’inizio estate. Dalle 3.44 del 9 giugno, quando un allarme e il grido di una donna squarciano la tranquilla campagna di Piossasco: «Aiuto, ci sono i ladri». Roberto Mottura e la moglie Laura Mai sono in camera da letto, al piano superiore della villetta. Il figlio Tommaso, 13 anni, dorme nella stanza accanto. Quando scatta l’antifurto si svegliano, non pensano che qualcuno si sia introdotto nella loro abitazione. «Avrò lasciato la finestra aperta, sarà un gatto», borbotta assonnato Roberto. Laura si alza e scende al piano di sotto. È a metà della scala quando in soggiorno vede due uomini vestiti di nero: «Non urli signora», intima uno di loro. La donna corre di sopra: «Ci sono i ladri». Roberto si precipita in salotto e affronta i malviventi. Succede tutto in pochi minuti. Al trambusto segue il silenzio. Poi i lamenti sommessi dell’architetto: «Mi fa male». Roberto muore alle
Attilio, padre dell’architetto Roberto Mottura, 49 anni, nella pagina accanto, ucciso nella sua villa di Piossasco (Torino) dove è stato colpito da un proiettile di piccolo calibro dai ladri
durante un tentativo di furto 4.22. Mentre i banditi si dileguano nel buio.
Subito si parla di una banda: due rapinatori in casa, uno a fare da palo. E non si esclude la presenza di un quarto uomo. Ma in quel momento per gli investigatori sono tutti fantasmi, tanto che «Ghost» è il nome con cui è battezzata l’inchiesta. Le impronte disseminate nella villetta svelano solo che indossavano i guanti, che non sono degli sprovveduti.
L’ANELLO DEBOLE
Ma ci sono indagini in cui le coincidenze arrivano in soccorso degli inquirenti. Nella catena di indizi che via via verrà costruita dai carabinieri c’è un anello debole. È un ragazzo di 25 anni, si chiama Bukurosh Snalla, per gli amici Rosh. Non è indagato per il delitto Mottura, ma ne custodisce alcuni segreti. Il giovane non ha un passato cristallino, si muove ai limiti della legalità. Da settimane il suo telefono è intercettato in un’altra indagine su una serie di furti. Il 9 giugno, intorno a mezzogiorno, la guida maldestra — non ha la patente — fa sì che venga coinvolto in un incidente stradale mentre è al volante di una Fiat Brava a noleggio. Scappa via, verrà fermato più tardi. Il suo telefono finisce nelle mani dei carabinieri, che trovano una chat interessante. Due ore dopo l’omicidio dell’architetto, Snalla aveva intrecciato su WhatsApp una conversazione con un connazionale: «Emi1». In rapida successione lo sconosciuto scrive: «Vengo a stare da te», «non ho le cose che vanno bene», «voglio togliere questo telefono», «mi è entrata l’acqua nel telefono». Poi si scoprirà che l’acronimo «Emi1» corrisponde a Emirjon Margjini: un albanese clandestino, con precedenti.
È in quel momento che i messaggi si trasformano nel canovaccio di una rapina finita tragicamente nel sangue. Si scopre anche che l’auto coinvolta nell’incidente era stata no
di un trentenne che ama i tatuaggi e sfacciatamente si mostra mentre imbraccia un fucile. Gli amici si lasciano scappare che «sta soffrendo per qualche azione andata male, che non doveva succedere». Frasi che vengono catturate dagli inquirenti. Tassello dopo tassello, si compone il puzzle. E i fantasmi diventano uomini. Ma il quadro non è ancora completo. Ed è ancora una volta Snalla a correre in aiuto degli investigatori. A metà settembre viene arrestato per il furto di un’auto a Monza. Al primo interrogatorio, quando i magistrati gli mostrano la chat del 9 giugno tra lui e Margjini, svela che l’amico gli aveva raccontato che era successo «un casino» e che un uomo era stato ucciso.
Snalla, però, custodisce un altro segreto che lo coinvolge in prima persona: riguarda la palazzina di strada del Bramafame, esplosa il 3 settembre. Il giorno dello scoppio, nel suo alloggio — che a giugno aveva prestato agli amici sospettati del delitto — c’erano la cugina con il figlio Aron, di 4 anni: il bimbo muore schiacciato dalle macerie. E agli inquirenti Snalla racconta pure che la palazzina sarebbe esplosa per colpa sua, per aver armeggiato sull’impianto a gas.
Si arriva così al primo ottobre. Gli investigatori ritengono di avere abbastanza elementi e la banda finisce in manette. Un mese dopo, il puzzle si scompiglia. Syla ha un alibi: alcune foto lo ritraggano a cena dai suoceri nel Casertano la sera del delitto. E gli indizi contro Lazri sono troppo circostanziali: i tabulati non sono sufficienti per collocarlo sulla scena del crimine. Margjini, invece, resta in carcere. L’unico punto fermo. Mentre i complici tornano a essere fantasmi.
FERMATO DOPO UN INCIDENTE D’AUTO, RACCONTA CHE UN AMICO GLI HA CONFIDATO CHE ERA «SUCCESSO UN CASINO»: UN UOMO ERA STATO UCCISO