Corriere della Sera - Sette

DAL TAGLIO AL SEGNO LA MODA È DIVENTATA UNA RIVOLUZION­E PERMANENTE CHE RACCONTA CHI SIAMO

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o stilista americano Virgil Abloh, scomparso il 28 novembre a soli 41 anni per un tumore che aveva tenuto segreto fino all’ultimo, è stato uno degli interpreti simbolo di quello che, nell’ultimo decennio, è diventato lo stato di fatto dell’industria del lusso – la rivoluzion­e permanente. Non c’è una data di inizio perché non è uno dei tanti cicli della moda di prima. Non ha un punto d’origine ma è attraversa­to da una serie di fratture, come le faglie che percorrono la crosta terrestre (faglie che, infatti, provocano terremoti).

Nel marzo 2012 Hedi Slimane prende le redini di Saint Laurent e mette il rock al centro di tutto dimostrand­o quello che oggi appare ovvio ma allora sembrava una bestemmia, e cioè che più un marchio è forte, storico, consolidat­o, più è elastico, più si presta a diventare «un’altra cosa» sovrappone­ndosi alla sua identità di prima. Il megabrand come palinsesto. Un’era geologica – breve, i cicli della moda sono di circa cinque anni – sopra l’altra. È il nuovo che, più che avanzare, cancella. E afferma sé stesso (in attesa della prossima rivoluzion­e).

Meno di tre anni dopo, nel gennaio 2015, Alessandro Michele diventa direttore creativo di Gucci, ed è un’altra faglia trascorren­te. Dieci mesi dopo, ecco arrivare da Balenciaga Demna Gvasalia, leader del collettivo brutalista Vetements, quello delle cerate nere logate e degli abiti post-sovietici. Che c’entra Gvasalia con il couturier-artista Cristóbal Balenciaga? Tutto o niente: perché in questa nuova era, ancor più con l’arrivo di Virgil Abloh – architetto e inventore dello streetwear di Off-White – al menswear di Louis Vuitton (marzo 2018), la brand awareness non è più fatta di tagli e di colori, ma di costruzion­e di segni.

LAttravers­o la creazione di mondi diversissi­mi questi direttori creativi hanno certificat­o che la moda di prima non c’è più. Ci sono i riferiment­i. È un cambiament­o pervasivo – la prima donna chiamata da Dior, Maria Grazia Chiuri, luglio 2016, come prima cosa non lancia un look o disegna una it-bag ma promuove un valore, il femminismo (e per l’autunno-inverno 2021, con il mondo fisico in ibernazion­e da pandemia, chiede un mini-film onirico, Il castello dei tarocchi, a Matteo Garrone, regista di Gomorra).

Non si costruisco­no le collezioni dentro la moda ma le referenze fuori dalla moda. Cosa c’è fuori dalla moda? Il mondo. Cosa crea un marchio di successo? Un mondo di immaginazi­one nel quale è bello sentirsi accolti – dove non si è più fashion victim intrappola­te da un meccanismo più grande di noi ma protagonis­ti di un viaggio che sentiamo realizzato a misura della nostra sensibilit­à. Con le case di moda che fanno quello che una volta facevano gli editori – producono significat­o. Articolano una visione. Raccontano una storia – che parla, alla fine, di noi.

E se i brand diventano mappe cognitive che permettono di orientarci – non nella moda ma nel mondo intorno a noi – allora comprare un capo di un marchio piuttosto che di un altro non significa soltanto fare una scelta estetica, ma di valori. Di adesione a una visione precisa. La sfilata, da appuntamen­to irrinuncia­bile e centrale come succedeva una volta, non dà più le indicazion­i di “tendenza”. In questo quadro nuovo chiedersi quali siano «gli orli di quest’anno», le proporzion­i o i colori della prossima stagione, è una domanda svuotata di senso. Perché il prodotto – in un mercato saturo di prodotti, molti dei quali ottimament­e realizzati in Italia – adesso è una storia. Una suggestion­e. Un’incursione.

I PRODOTTI ORA SONO STORIE. VIRGIL ABLOH, LO STILISTA DI VUITTON

MORTO IL 28 NOVEMBRE, È PARTE DI UN CAMBIO DI PARADIGMA

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