SI CHIAMAVA ARDITO, ERA RETICENTE PER SCELTA E DIEDE ALL’ITALIA IL K2
Obbedienza assoluta, niente paga, ordini del giorno militarmente scanditi, punizioni. E soprattutto riservatezza, interviste proibite a tutti i membri della spedizione. Sì, perché di spedizione si trattava e non di impresa guerresca, bisognava scalare il K2, più di 8 mila e 600 metri di montagna di roccia e ghiaccio – allora la più alta ancora inviolata al mondo – nella catena del Karakorum, più difficile da conquistare dell’Everest. Era il 1954 ela mission impossible nell’Italia della ricostruzione la tentava quell’uomo, Ardito Desio (nomen omen), che per i suoi dispacci bellici era stato soprannominato dittatore, ducetto, piccolo generale. Prima di diventare geologo di gran fama, pioniere in patria, se ne era andato volontario in guerra uscendone maggiore degli alpini: «L’organizzazione della spedizione deve avere una impostazione di tipo militare nel senso però noto a chi ha trascorso qualche tempo della sua vita, specialmente in guerra, nelle nostre truppe alpine» avrebbe scritto poi nel libro La conquista del K2.
In nome del bene supremo, il trionfo dell’Italia, Desio aveva anche, con un po’ di spregiudicatezza, allontanato dall’impresa con troppo severi e controversi esami medici alcuni alpinisti fuoriclasse come Cesare Maestri, Riccardo Cassin e Gigi Panei. Ma di sicuro senza l’autorevolezza di Desio e senza le sue relazioni internazionali, l’Italia non avrebbe neppure potuto tentare l’impresa, con gli americani che remavano contro. E difatti gloria fu: per l’Italia, che da Paese cenerentola diventa eroica; per Desio e il suo gruppo, anche se il successo fu avvelenato da quel giallo a 8 mila metri.
Il merito della conquista va ad Achille Compagnoni e a Lino Lacedelli come certificato dalla relazione di Desio che rimarrà quella ufficiale per anni, nonostante la battaglia in solitaria di Walter Bonatti, il più giovane e talentuoso della spedizione, per stabilire una più completa e sofferta verità. Quella notte, stabilito da Desio che in vetta salivano Compagnoni e Lacedelli, Bonatti si era assunto il ruolo di gregario per trasportare a 8.100 metri, 9° campo base, treppiede e bombole di ossigeno, che allora pesavano 19 kg e sarebbero servite per l’affondo finale. Verso sera, quando con lo scalatore pakistano Amri Mahdi arrivano all’appuntamento, Compagnoni e Lacedelli non c’erano. Avevano spostato il bivacco 150 metri più in alto. Li cercano disperatamente e nel buio Lacedelli grida: «Non vorrai che stiamo fuori tutta la notte a gelare per te. Avete l’ossigeno? Lasciate le bombole e scendete subito». Ma ormai non potevano tornare. Passano la notte a -40°, e il pakistano ne esce con dita congelate e amputate.
C’è l’obbligo al silenzio, ma Compagnoni accusa Bonatti di aver tentato lo sgambetto. Il giovane Walter inizia la sua battaglia durata una vita, per vedere riconosciuta la sua versione solo dopo la morte di Desio. La figlia, Maria Emanuela, cercherà poi nel tempo di attenuarne le responsabilità: «Mio padre non è mai stato alpinista: come fa a rispondere su ciò che accadde a 8.000 metri?». Ancora a 90 anni (morì a 104, il 12 dicembre 2001) Desio geologo progettò e realizzò un laboratorio di ricerca sotto la cima dell’Everest. Peccato per quella piccola reticenza da eroe militare del ’900.
PIONIERE DELLA GEOLOGIA, DESIO FU IL REGISTA DELL’IMPRESA CHE NEL 1954 RIACCESE L’ITALIA. L’OMBRA DELLA DISPUTA CON BONATTI
rima donna ceo di H&M e terzo ceo scelto al di fuori della famiglia che tuttora controlla il gruppo: tutta una carriera — ventiquattro anni — nella stessa azienda, un cursus honorum di nomine sempre più prestigiose, facendo nel frattempo il giro del mondo. L’ingresso, da ragazza, come business controller nell’ufficio acquisti, poi la promozione a dirigere la sezione che si occupava della pianificazione degli acquisti, il trasferimento in Bangladesh nel 2006 come responsabile delle risorse umane presso l’ufficio di produzione locale, poi a Hong Kong come supply chain manager, il ritorno alla sede centrale di Stoccolma come Chief Sustainability Officer, poi sempre più
Pin alto — Global Head of Production, Chief Operating Officer —. E poi Helena Helmersson subentra a Karl-Johan Persson, nipote del fondatore, nel gennaio 2020. Pochi giorni dopo, esplode la pandemia.
E allora che fine fanno tutte le idee che aveva portato con sé nel suo nuovo ufficio di ceo, le strategie pensate attraverso ventiquattro anni di lavoro — che rappresentano un terzo della storia di H&M — e che finalmente a gennaio 2020 poteva cominciare a mettere in atto? Ma quanto ci è rimasta male?
Helmersson, nel bar (deserto) di un albergo alla moda di Barcellona, ride rassegnata e dice, semplicemente: «Sì!». Sorride rassegnata e riprende: «Ma c’è da dire una cosa: io, anche prima della pandemia, avevo un principio: mi interessa fare la cosa migliore per la prossima generazione, non per il prossimo trimestre. Questa è un’azienda di famiglia, ha dei principi chiari con i quali è nata e che porta con sé nei momenti belli come in quelli più complessi. È un’azienda cresciuta
«SE SAI QUAL È LA TUA RESPONSABILITÀ RISULTA TUTTO PIÙ SEMPLICE. CREARE POSTI DI LAVORO? CERTO, MA DI CHE TIPO?»