Che cos’è oggi la mascolinità? I look di Harry Styles, Achille Lauro o Damiano dei Mäneskin stanno facendo la rivoluzione? E nella letteratura: cosa sta cambiando nel modo di raccontare e di raccontarsi? Sette scrittori (più uno) si confrontano. Risulta
ualche mese fa, su una rivista, scrivevo che la società tempo addietro era un gigantesco supermercato. Sugli scaffali milioni di prodotti ben etichettati e con dentro ciò che la descrizione prometteva di trovarci. Oggi, lo sappiamo, non è più così. Non siamo barattoli di sughi pronti, i corpi sono contenitori entro cui possono essere racchiusi universi sterminati e, alle volte, pure insondabili. Ciò non implica che la tradizione con cui si è arbitrato il mondo finora debba cadere rovinosamente, solo che certi dettami, e certe definizioni, affinché ognuno possa vivere e viversi perseguendo la propria autenticità, devono venire meno per forza di cose. Quale futuro, quindi, per la mascolinità? Quali sono i nuovi ruoli dei maschi? Sette autori provano a rispondere. S’interrogano su quali forme, se di forme ha ancora senso parlare, possano coabitare per trovare nella diversità una ricchezza inedita. Nessuno di loro punta all’annichilimento della tradizione, tutti sono alla ricerca di strade nuove per una pacifica coesistenza.
Treccani definisce la mascolinità come «il complesso di caratteristiche che sono proprie dell’uomo in quanto si differenzia dalla donna». Siete d’accordo?
Tommaso Giagni, 36 anni: «Mi sembra una definizione inadeguata, un solido che cerca d’appiccicarsi a un liquido.»
Jonathan Bazzi, 36 anni: «Tiene conto solo del passato, collega l’aspetto biologico alla persona ma oggi sappiamo che questi due piani, corpo e identità, possono non coincidere».
Giorgio Ghiotti, 27 anni: «È una definizione coatta, e la teoria non dovrebbe forzare la mano sulla realtà delle cose».
Andrea Donaera, 32 anni: «Sono d’accordo con Ghiotti. Così si appiattisce lo spettro emotivo e comportamentale di un individuo».
La mascolinità, in effetti, ha sempre avuto linee di confine nette ma
QDI MATTIA INSOLIA
oggi, forse, le cose stanno cambiando. Le sue modificazioni procedono per fasi storiche?
Matteo Trevisani, 35 anni: «Negli ultimi trent’anni la mascolinità ha subìto grandi cambiamenti. Quindi sì, procede per fasi. Ma penso abbia delle fasi pure nella vita di ciascuno. Per me, ad esempio, la mascolinità da qualche anno è inestricabile dal mio ruolo di genitore. Con la paternità ho scoperto una tenerezza, nell’accudimento di mio figlio, che ha molto a che vedere con la mia mascolinità».
La mascolinità ha diverse forme, quindi. È sfaccettata.
Mario Desiati, 44 anni: «È l’identità ad avere tante sfaccettature. Essendo parte di essa, la mascolinità cambia con l’identità».
Giagni: «Che ci siano delle fasi storiche è chiaro. Il concetto di mascolinità cambia di continuo.»
Alessio Forgione, 35 anni: «Sì, però il mondo non cambia solo nel tempo ma pure nello spazio. In certe zone del Paese i maschi sono quelli di cinquant’anni fa: in determinati posti le modificazioni fanno fatica a entrare».
Harry Styles, Achille Lauro, Damiano dei Måneskin: nel mondo della musica molti si discostano dalla mascolinità tradizionale. In letteratura accadrà? Quali sono le nuove vie narrative?
Forgione: «Sono ridicoli, per me. Non cercano di aiutare gli altri, migliorare il mondo: sono in cattiva fede. E poi è roba vecchia, se ci si sconvolge per Achille Lauro non ci si ricorda di Renato Zero.»
Donaera: «Su questo sono d’accordo con Forgione. Cose così si vedevano già con l’Hard Rock. I capelli cotonati, i pantaloni di pelle, le borchie: c’era tutto. I Mäneskin si vestono come si vestivano i rocker negli anni Ottanta. Su una cosa sono però in disaccordo: è bello vedere che è diventata un’esperienza normale».
Per quel che riguarda la letteratura, invece?
Desiati: «Sta avvenendo: gli autori giovani questo tipo di mescolanze le usano e la direzione è chiara. Pier Vittorio Tondelli è stato probabilmente capofila, ma voi stessi, Insolia e Bazzi e Donaera, lavorate su personaggi maschili sfaccettati in modi che prima erano parte di un ghetto narrativo, mentre oggi non sono altro che la narrativa contemporanea. La vostra scrittura si pone degli interrogativi che hanno a che fare con ruoli nuovi per i maschi».
DONAERA: «COMINCIO A SENTIRMI A MIO AGIO NEL MONDO. IL CAMBIAMENTO PER ME È UNA LIBERAZIONE»
Bazzi, che ne pensa? Nel 2020, quando con Febbre è entrato in cinquina allo Strega, di aspetti come questi si è parlato molto, riferendosi a lei e al suo romanzo.
Bazzi: «Con Desiati sono d’accordo a metà. Un cambiamento c’è, ma rispetto agli altri Paesi siamo indietro. L’ambiente letterario qui è troppo legato al passato, per vocazione e posa, ed è qualcosa con cui fatico a interagire. È un ambiente che coltiva un fiero attaccamento a ciò che è stato, una diffidenza per la contemporaneità, mentre io sono interessato a ciò che accadrà domani».
A proposito dello Strega?
Bazzi: «Cosa avrò mai fatto allo Strega? Mica ci sono andato con lo strascico o vestito da Drag Queen. Avevo camicie con le stampe e smalto sulle unghie, niente di allucinante. È che ci si sconvolge per poco, in Italia».
L’errore di affiancare la femminilità o la mascolinità, a seconda dei casi, all’orientamento sessuale sta cadendo?
Trevisani: «La mascolinità è una cerniera tra natura e cultura, e cambiando il modo di sentirci cambia l’ottica con cui guardiamo il mondo. Quindi sì, sta cadendo».
Desiati: «È una generalizzazione, e generalizzare significa avere pigrizia del pensiero. Sì, cadrà».
Ghiotti: «Non so se è pigrizia del pensiero, pure se il concetto mi piace, ma di sicuro è un errore. La mascolinità prescinde sesso, orientamento sessuale e identità di genere. Le cose stanno cambiando, ma lentamente, basta pensare alla bocciatura del ddl Zan: c’è attrito».
Donaera: «È vero, il cambiamento è lento, ma è in atto e per me è una liberazione».
Che questa giustapposizione stia cadendo?
Donaera: «Sì, inizio a sentirmi a mio agio nel mondo. Prima frequentando una ragazza dovevo dire, confessare, che non sono attratto solo dalle donne, ma anche dagli uomini. Oggi non più. La sessualità comincia a non essere regimentata da mascolino e femminino».
Queste modificazioni credete concedano la possibilità di non nascondere più le vulnerabilità?
Ghiotti: «Ognuno ha in sé molti universi tra loro non in contrasto ma che procedono come in un unico flusso. Chi si concentra sulla biologia e non sui
desideri rimane incastrato in definizioni asettiche. La biologia non può prevalere sui saperi. Ciò significa che ognuno dovrebbe sentirsi libero di mostrarsi, se è quello che desidera».
Ed è un cambiamento in atto, questo?
Ghiotti: «Sì, ma anche qui: è lento».
Giagni: «Sono d’accordo con Ghiotti, ma penso dipenda da dove ci si trova. In alcuni ambienti che la vulnerabilità non coincida con la debolezza è ormai chiaro, ma in altri no».
Donaera: «Io credo che ancora non sia facile dire ad esempio “soffro di depressione, vorrei curarmi”: c’è molta resistenza sia per gli uomini, sia per le donne».
Dovuta a cosa?
Forgione: «Tornerei all’aspetto sociale: il cambiamento è lento perché in certe zone si è indietro. Il solo modo di stare al mondo, di sentirsi autorevoli, per alcuni è usare un’aggressività che non lascia spazio alle vulnerabilità».
Trevisani: «È un fatto culturale, sì. Spesso la mascolinità si riduce a “faccio pipì in piedi, non piango, se devo risolvere un problema meno i pugni”, quando, in realtà, è una questione valoriale molto più complessa di così. In una siffatta situazione mostrarsi non è facile».
Si parla spesso di mascolinità tossica. Vi è mai capitato di subire atti di bullismo, in tal senso?
Forgione: «Niente di fisico. Venivo preso in giro perché leggevo o andavo a scuola: comportamenti anormali da dove vengo io. Da ragazzo mi chiamavano l’italiano solo perché parlavo correttamente». Come la faceva sentire?
Forgione: «Non mi è mai importato, ma in quegli atteggiamenti c’era il tentativo di farmi sentire diverso».
Ghiotti: «Vivevo situazioni simili a quelle di Forgione. Che leggessi poesia non era normale, era da femminuccia. E venivo guardato male. Ero uno strano».
Giagni: «Non ho mai fatto esperienza di eventi traumatici, ma capisco ciò che dicono Forgione e Ghiotti e so quanti danni possano fare certi atteggiamenti. La pressione di doversi comportare nei modi prestabiliti è tanta e può essere pericolosa, specie in adolescenza. Mi ha salvato il tipo di educazione che ho ricevuto».
A proposito dell’educazione. Ha un’incidenza
GIAGNI: «IN ALCUNI AMBIENTI CHE LA VULNERABILITÀ NON COINCIDA CON LA DEBOLEZZA È CHIARO, IN ALTRI NO»
forte sulla formazione di chi siamo?
Desiati: «Sono il più vecchio qui, ho quarantaquattro anni. Sono cresciuto in una società patriarcale e mi rendo conto che ce l’ho dentro, il patriarcato. Cerco di tirarmelo fuori da anni, ma è un processo lungo e complesso. Quindi sì, l’educazione ricevuta è fondamentale».
Vuol dire che è stato vittima della sua stessa mascolinità tossica?
Desiati: «Presentavo un libro in una scuola, raccontavo un aneddoto calcistico e nell’auditorium si erano creati due gruppi: le ragazze, i ragazzi. Insomma, parlavo di calcio e mentre lo facevo guardavo solo i maschi finché una ragazza non mi ha chiesto perché non mi stessi rivolgendo pure a loro, alle femmine, e mi sono reso conto che aveva ragione: le stavo ignorando. Da maschio pensavo che solo i maschi potessero capirmi. Una parte di quel modo di ragionare ti resta, e la devi combattere: se fai cadere la gabbia del patriarcato in cui sei chiuso, sei più libero».
Donaera: «Sono d’accordo con Desiati. Per questo, secondo me, la mascolinità non può che essere tossica. Mi ricordo quando alle medie i miei compagni palpavano il sedere delle ragazze. Io non l’ho mai fatto e venivo insultato, mi chiamavano frocio, ricchione, solo perché non toccavo il sedere delle compagne. Da allora per me la mascolinità è questo: piegare chi si ha attorno».
Trevisani: «C’è per ognuno un momento in cui si ha l’impressione che siano tutti più maschi di te. Sta a noi riuscire a capire in che modo vivere la nostra mascolinità. Di atti di bullismo non ne ho mai subiti, ma la pressione dell’esterno, come dice Giagni, l’ho avvertita e gestirla non è facile».
Bazzi: «Anch’io, come Donaera, risalirei alle medie. All’epoca il calcio era una tragedia. Non sapevo giocare e non mi andava d’imparare, ho sempre avuto una scarsa inclinazione per gli sport di squadra. Quando scendevamo in cortile all’intervallo evitavo il campo, e venivo insultato: ero l’handicappato. Mi faceva star male, ma non ero capace di far altrimenti e stavo con due compagni che, come me, di calcio non volevano saperne. Giocavamo ai Power Rangers – io ero la rosa, Kimberly. A far male era l’essere additato come quello da meno, l’incapace. Ma incapace di cosa, d’esser come loro? E perché dovrei?». Esatto. Perché dovremmo?