SUONA BENE? COSÌ LA GRAVITÀ È PIÙ CHIARA
CHIAMIAMOLO
IL VERO PROBLEMA DELLE PAROLE ed espressioni inglesi usate in italiano è che il loro significato resta sempre un po’ vago, fumoso, dai contorni sfuggenti. Quel che conta è soprattutto come suonano. È quel suono esotico che conferisce a quelle parole ed espressioni una certa aura di prestigio: che le fa suonare (appunto) di volta in volta più autorevoli, tecniche, scientifiche, divertenti, attuali rispetto a quelle italiane. Per questo sono spesso usate con l’intento più o meno deliberato di nobilitare o mascherare, di rendere più attraenti o accettabili cose che altrimenti si rivelerebbero per quel che sono.
Che cos’è l’eros center se non un postribolo legalizzato, si chiedevano qualche anno fa Claudio Giovanardi e Riccardo Gualdo in un libro intitolato Italiano-inglese 1-1? E in un saggio su quello che chiamava «l’italiano interinale», Pietro Trifone notava come il venditore porta a porta potesse sentirsi gratificato dalla «definizione ben più professionale di seller door to door». È lo stesso motivo per cui una recente legge sul lavoro è stata chiamata Jobs act, per cui in treno ci si dice di rivolgerci al train manager o per cui – se ne parlava qui poco tempo fa – si preferisce invitare le persone a fare il booster invece che il richiamo del vaccino.
Accade così anche per l’hate speech. Detto in questo modo rischia di risultare qualcosa di innocuo: da chi ne sa poco sia di Internet che di lingua inglese potrebbe persino essere associato a una nuova diavoleria tecnologica o a una moda diffusa tra le giovani generazioni.
Un linguaggio tossico
E invece l’hate speech è qualcosa di grave e di preoccupante. È quel linguaggio dell’odio fatto di minacce e insulti che si sta diffondendo sempre di più nelle conversazioni ormai ben poco virtuali che avvengono in rete, con serie conseguenze – in certi casi drammatiche – sulla vita reale delle persone. Un atteggiamento alimentato con particolare veemenza all’interno di gruppi in cui il principale collante è proprio l’odio verso l’esterno, verso chi è considerato diverso e per questo identificato come nemico.
L’hate speech è un linguaggio specifico, dunque: non un dialetto legato a determinate zone o luoghi della rete, non un idioletto individuale legato agli usi singole persone, ma un odioletto. Odioletto. È questo il modo in cui andrebbe chiamato in italiano questo linguaggio che trova nell’odio e nell’odiare la sua assurda ragion d’essere. Odio, la prima parte della parola è la traduzione dell’inglese hate; e quel letto della seconda parte non c’entra col dormire né col leggere, ma deriva dal greco antico légo «parlo» e – proprio sul modello di dialetto – è usato da tempo per definire alcune varietà di lingua: socioletto, tecnoletto, in passato anche poetoletto.
L’odioletto è un linguaggio elementare e ripetitivo, ma non per questo meno pericoloso. Come ha ricordato il presidente Mattarella già nel discorso di fine anno del 2016: «L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si propagano nella società, intossicandola». L’unica strada – allora – è una nuova educazione alla parola, che passi anche per il rafforzamento di una dialettica rispettosa dell’alterità.
LA PRIMA PARTE DELLA PAROLA TRADUCE QUELLA INGLESE, LA SECONDA DERIVA DAL GRECO ANTICO LÉGO, OVVERO «PARLO»