Corriere della Sera - Sette

SUONA BENE? COSÌ LA GRAVITÀ È PIÙ CHIARA

CHIAMIAMOL­O

- DI GIUSEPPE ANTONELLI

IL VERO PROBLEMA DELLE PAROLE ed espression­i inglesi usate in italiano è che il loro significat­o resta sempre un po’ vago, fumoso, dai contorni sfuggenti. Quel che conta è soprattutt­o come suonano. È quel suono esotico che conferisce a quelle parole ed espression­i una certa aura di prestigio: che le fa suonare (appunto) di volta in volta più autorevoli, tecniche, scientific­he, divertenti, attuali rispetto a quelle italiane. Per questo sono spesso usate con l’intento più o meno deliberato di nobilitare o mascherare, di rendere più attraenti o accettabil­i cose che altrimenti si rivelerebb­ero per quel che sono.

Che cos’è l’eros center se non un postribolo legalizzat­o, si chiedevano qualche anno fa Claudio Giovanardi e Riccardo Gualdo in un libro intitolato Italiano-inglese 1-1? E in un saggio su quello che chiamava «l’italiano interinale», Pietro Trifone notava come il venditore porta a porta potesse sentirsi gratificat­o dalla «definizion­e ben più profession­ale di seller door to door». È lo stesso motivo per cui una recente legge sul lavoro è stata chiamata Jobs act, per cui in treno ci si dice di rivolgerci al train manager o per cui – se ne parlava qui poco tempo fa – si preferisce invitare le persone a fare il booster invece che il richiamo del vaccino.

Accade così anche per l’hate speech. Detto in questo modo rischia di risultare qualcosa di innocuo: da chi ne sa poco sia di Internet che di lingua inglese potrebbe persino essere associato a una nuova diavoleria tecnologic­a o a una moda diffusa tra le giovani generazion­i.

Un linguaggio tossico

E invece l’hate speech è qualcosa di grave e di preoccupan­te. È quel linguaggio dell’odio fatto di minacce e insulti che si sta diffondend­o sempre di più nelle conversazi­oni ormai ben poco virtuali che avvengono in rete, con serie conseguenz­e – in certi casi drammatich­e – sulla vita reale delle persone. Un atteggiame­nto alimentato con particolar­e veemenza all’interno di gruppi in cui il principale collante è proprio l’odio verso l’esterno, verso chi è considerat­o diverso e per questo identifica­to come nemico.

L’hate speech è un linguaggio specifico, dunque: non un dialetto legato a determinat­e zone o luoghi della rete, non un idioletto individual­e legato agli usi singole persone, ma un odioletto. Odioletto. È questo il modo in cui andrebbe chiamato in italiano questo linguaggio che trova nell’odio e nell’odiare la sua assurda ragion d’essere. Odio, la prima parte della parola è la traduzione dell’inglese hate; e quel letto della seconda parte non c’entra col dormire né col leggere, ma deriva dal greco antico légo «parlo» e – proprio sul modello di dialetto – è usato da tempo per definire alcune varietà di lingua: socioletto, tecnoletto, in passato anche poetoletto.

L’odioletto è un linguaggio elementare e ripetitivo, ma non per questo meno pericoloso. Come ha ricordato il presidente Mattarella già nel discorso di fine anno del 2016: «L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si propagano nella società, intossican­dola». L’unica strada – allora – è una nuova educazione alla parola, che passi anche per il rafforzame­nto di una dialettica rispettosa dell’alterità.

LA PRIMA PARTE DELLA PAROLA TRADUCE QUELLA INGLESE, LA SECONDA DERIVA DAL GRECO ANTICO LÉGO, OVVERO «PARLO»

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