LA MALINCONIA,
COLONNA SONORA DEL 2021, NON SIA UN RECINTO MA PONTE SUL FUTURO
Se riavvolgiamo il nastro del 2021, se riattraversiamo le nostre vite secondo la colonna sonora che le ha accompagnate, scopriremo che la nota dominante è stata la malinconia. Questo racconta l’analisi di tutte le playlist globali: di quelle casuali, che sono il precipitato di dodici mesi di ascolto libero, come di quelle cesellate dai veri intenditori e professionisti della musica, che mettono in riga l’eccellenza. Nell’incrocio di sogno e rammarico, “malinconica” è l’audio-aura più diffusa. Siamo scivolati impercettibilmente oltre le nostre predilezioni di «prima», oltre i nostri elenchi e recinti abituali, e lo abbiamo fatto per trovare conforto. Brani un po’ più tristi, umbratili, tessiture musicali capaci di trattenerci e riscaldarci alla fiamma del languore, artisti o gruppi ripescati dall’intimità del nostro passato e sovrapposti al radar delle novità. E così nessuna sorpresa se, nella mia classifica personale, accanto alla celebrazione contemporanea dei Måneskin, compaiono Vienna, la ballata per pianoforte quasi antica (1977) di Billy Joel, o la produzione completa di Aimee Mann, cantautrice americana regina dell’introspezione.
Per ogni abbonato, Spotify ha impacchettato (wrapped, che in inglese offre anche un senso di conclusione, come dire: da qui bisognerebbe ricominciare) la sintesi di fine anno. Quella lista in grado di rivelare – con la forza chiusa di un algoritmo – che cosa abbiamo cercato e selezionato da gennaio a dicembre: quale canzone e genere, quale podcast e tipo di podcast. Attraversando stagioni e lockdown. E se pure questa app (come altre simili) non appartiene al vostro spazio e tempo quotidiano, i dati raccolti dalle preferenze di 381 milioni di iscritti parlano di voi. Parlano di noi. Mostrano in contro luce – in contro suono
– che cosa ci è successo in questo interregno pandemico.
Che segnale, che segno possiamo leggere nella traccia comune della malinconia? Un nesso possibile è con il Preromanticismo e il Romanticismo tedesco, che non fu solo una corrente letteraria bensì un movimento larghissimo e profondo, capace di rinnovare il modo di pensare e di sentire dell’Europa intera. Tempesta e Impeto all’inizio, poi un desiderio sistemico di cogliere l’anima delle cose. Di lasciarsi alle spalle lo struggersi del giovane Werther per approdare a un canone che fosse altro rispetto all’Illuminismo. E dunque il verdetto di Spotify è una buona o una cattiva notizia? Qual è lo spirito dei tempi – o anche solo l’umore generale – che è maturato in un altro anno di attesa, di dubbi, di paura? Essere malinconici (wistful) fa bene o male?
Chi osserva i mutamenti della società ha parlato in queste settimane di ritorno dell’irrazionale (rapporto Censis 2021) o di uno status in ascesa delle emozioni, per secoli guardate con sospetto in quanto fonte di confusione e dispersione rispetto alla linearità necessaria al progresso. Quale comunità di persone raccoglierà l’eredità di una crisi che il Coronavirus non ha forse generato ma sicuramente accelerato? Nelle relazioni ripensate e ritentate da remoto – il lavoro, la scuola, le amicizie – troveremo comunque un’area di contatto che ci renderà una società funzionante o la rarefazione originerà incomprensioni gassose (di «società gassosa» ha parlato il Papa) che neppure la liquidità del sociologo Zygmunt Bauman aveva previsto?
Forse, mentre l’anno si chiude, interrogarci – scuotendo via, quando possibile, la stanchezza – è il primo passo verso il futuro prossimo. Non ci sono risposte fuori di noi e forse neppure dentro una playlist. Ma la vita, come la musica, non si ferma.
IL VERDETTO DI SPOTIFY SULLA NOTA DOMINANTE NELLE NOSTRE
CLASSIFICHE MUSICALI INTERCETTA UN SEGNO DEI TEMPI