LA «VOCAZIONE TERRENA» DI RACHEL BESPALOFF IN EQUILIBRIO SEMPRE INSTABILE
Cosa ci faccio qui? Quale è il senso della mia esistenza? Sono domande impegnative, ma ineludibili, se vogliamo capire davvero qualcosa di noi stessi. Le prospettive sono tante. Possiamo alzare lo sguardo verso il tutto che ci circonda, come Leopardi nel Canto del pastore errante: quale è il senso di questa nostra esistenza, qui su questo pianeta sperduto, in un universo immenso e indifferente? Ancora di più, la domanda è personale, privata: quale è il senso della mia vita – delle mie scelte, frequentazioni, questa routine fatta di famiglia e lavoro, uscite e momenti di solitudine?
Sono domande su cui Rachel Bespaloff non ha smesso di interrogarsi, in una vita tormentata, sempre in movimento, dalla Bulgaria in cui era nata (di passaggio, perché la famiglia proveniva dall’Ucraina) a Ginevra, da Parigi, dove per qualche anno trovò quella calma interiore di cui era in cerca, agli Stati Uniti, dove riparò per scampare alle persecuzioni contro gli ebrei. Ancora poco conosciuta, è stata in realtà una delle pensatrici esistenzialiste più interessanti in Francia, prima che la stella di Sartre prendesse il sopravvento, oscurando tutti. L’intuizione di partenza è semplice: cerchiamo disperatamente centri di gravità permanenti, nel tentativo di dare ordine alle nostre esistenze. Ma questi punti di riferimento mancano: inutile illudersi di poter ricomporre tutte le tessere del mosaico in modo da avere un disegno coerente. La vita rimane conflittuale, è fatta di frammenti contraddittori che sta a noi cercare di tenere insieme, e non sempre si riesce. Qui è la sfida, nella capacità di procedere in un equilibrio sempre precario, instabile. «La via mediana tra gli estremi spesso non è più larga di una corda tesa sulla quale si avanza per un prodigio di equilibrio», scrive nel suo ultimo saggio, L’istante e la libertà, appena tradotto per Gli struzzi di Einaudi.
Più precisamente, si tratta di riscoprire la propria «vocazione terrena», che è la capacità di riappropriarci delle nostre esistenze, qui e ora, facendole diventare veramente nostre. Inutile inseguire un sogno di perfezione, meglio imparare a godere «della luce sfuggente, delle melodie portate via, degli amplessi fugaci» – di quei momenti, insomma, nostri e solo nostri, in cui sentiamo finalmente la vita pulsare, e pazienza se agli altri sembrano incompleti o contraddittori. Che senso ha sprecare l’unica vita che ci è toccata in sorte? Non è semplice, ma non è neppure impossibile, se solo si trova il coraggio di accettare sé stessi per quello che si è (e si vuole essere), senza continuamente inseguire quello che gli altri vorrebbero fare di noi. Lo aveva già scritto Montaigne, così profondo nella sua apparente superficialità: «La più gran cosa del mondo è saper essere di sé stessi». Se non s’impara a sopportare l’insicurezza del divenire, non si può assaporare il gusto della libertà. «Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve».
LA FILOSOFA ESISTENZIALISTA FRANCESE CI INVITA A RIAPPROPRIARCI DELLE NOSTRE ESISTENZE ACCETTANDOCI
ÈCapodanno. Potrei uscire, ubriacarmi, andare a ballare, invece non mi muovo da casa. Perché non esistono cerotti per un cuore spezzato».
Mrs Fairytale si è rimessa il bustino stretto, la gonna a ruota, il rossetto rosso, il tacco dieci e certe idee in testa. È stata una fortunatissima tournée teatrale, Favola, un paio di lustri fa, poi un piccolo film di culto. Torna sul palcoscenico dove è nata, al Teatro Parenti di Milano, per raccontarci tutti i paradisi da cui, nel frattempo, è stata cacciata. «Volevo partire dall’ultima scena dello spettacolo ma poi la storia è andata altrove ed è diventata un’altra cosa» racconta Filippo Timi impegnato negli esercizi di memorizzazione del testo, l’autorattore (neologismo) dal multiforme ingegno che si rimette i panni e le ciglia finte della signora Favola, estrae dal baule del trovarobe la barboncina impagliata Lady e sfida ancora una volta il precipizio dell’affabulazione per scatenare una tempesta perfetta di parole ed emozioni. Con un avvertimento (e un sottotitolo), allacciatevi le cinture, è un viaggio a senso unico: non si torna indietro dalla felicità.
Ha scritto un prequel o un sequel, Timi?
«Cominciamo da Così parlò Zarathustra. Nietzsche parla delle tre metamorfosi per arrivare all’illuminazione: affrontare i cambiamenti, assumendosi il peso della propria storia, distruggere per affermare sé stessi e poter accedere alla fase del bambino. Cioè il gioco, la spontaneità, il sacro dire sì».
E Mrs Fairytale a quale fase appartiene?
«Il percorso attoriale è questo: lasciare la comfort zone per rappresentare altro. Mrs Fairytale esisteva già, l’avevo scritta dieci anni fa. Adesso cerca di uscire da quella casa nell’America degli Anni 50, in sottofondo c’è la musica di Dracula di Bram Stoker, è come se fosse un vampiro, una creatura mai del tutto viva né morta. La storia riparte da Capodanno, si va in scena al Parenti dal 30 dicembre. Ma è un Capodanno che si ripete, come nel Giorno della Marmotta: è una rappresentazione senza tempo. A un certo punto arriverà un uomo invisibile. Parlando con il mio amico Adriano Giannini mi è venuto in mente di prendere un bravo attore-doppiatore, Emiliano Coltorti.
Entrerà per una scena importante, la penultima».
Si ride, anche, un must dell’ultimo dell’anno.
«Sì certo, però non verranno riproposti i temi di Favola: ho affrontato gli argomenti che mi interessano oggi. L’estetica dello spettacolo è la stessa, ma è un pretesto. Lo scopo è dare di nuovo voce a Mrs Fairytale. Perché Carmelo Bene ha portato più volte in
scena Amleto o Pinocchio? Me lo sono chiesto. Il nocciolo dello spettacolo è amletico: Mrs Fairytale è un personaggio che, mano a mano, non senza fatica, prende coscienza di sé».
Cos’ha di contemporaneo una casalinga disperata nell’America del boom economico e della segregazione razziale?
«È esemplare per chiunque, soprattutto in questo momento storico. Ci è capitata la pandemia e invece di assumerci la situazione reale ci spingiamo verso un disperato tentativo di affermare noi stessi, garanzia di fallimento. Su di me il cambiamento è accaduto davvero: non do più per scontate cose di cui, prima, nemmeno mi accorgevo. E basta salutarci col pugnetto: io sono un toccone, non ne posso più! Mrs Fairytale è in piena metamorfosi. L’ha subita tutto il mondo. Ci è cambiato
«MI SENTO FORTUNATO: I PRIMI
DIECI ANNI DA ATTORE, QUANDO FACEVO SOLTANTO
TEATRO, NON ARRIVAVO A FINE
MESE»
sotto gli occhi il concetto di spazio e tempo, si è trasformata soprattutto la maniera di relazionarci».
Come vorrebbe che lo spettatore uscisse dal suo nuovo spettacolo?
«Se andasse via con il sorriso, andrebbe benissimo. Però mi spingo oltre: vorrei che il pubblico uscisse da teatro di nuovo innamorato della vita, illuminato».
Asticella altissima.
«Ma fare teatro è un gesto artistico assoluto, un voto (non vuoto) a perdere. È l’unica arte che non lascia traccia di sé se non lì, in quel momento. Tornare a teatro dopo la pandemia è stato come rifare l’amore dopo due anni, ricominciare a sentire il cuore, il fiato, il corpo dell’altro».
Immergendosi nel mondo interiore di una donna, cosa ha capito delle donne?
«Credo che il limite più grande sia questo senso profondo di ingiustizia. Fa comodo a noi uomini non vedere certe cose. Se un attore guadagna cento, un’attrice guadagna cinquanta. In Italia continuiamo a dare per scontato il maledetto modello della famiglia patriarcale: tutte le discriminazioni nascono da lì. Diceva Bene che l’attore è la femminilità portata a coscienza». È anche il suo caso?
«Io fino a 25 anni entravo in scena per non balbettare, per dimostrare agli altri che ero bravo e a me stesso che esistevo. Poi grazie a Cechov ho capito che era più interessante mettermi a disposizione del ruolo e della storia. Da concavo a convesso, insomma. Ma finché non abbracci il tuo dolore, la tua fragilità, non succede. Ecco, per tornare alla sua domanda vorrei che lo spettatore uscisse da Mrs Fairytale con il desiderio di abbracciare sé stesso. Possibilmente con amore».
Gli atleti usano le vestizioni per entrare nella “zona”, quel luogo in cui esiste solo ciò che stai facendo, il qui e ora. La sua complessa vestizione da Mrs Fairytale conduce all’immedesimazione?
«Ci sono passaggi tecnici comandati: la parrucca dopo l’abito, l’abito dopo il bustino, i tacchi per ultimi. Questa è la fase in cui non posso fare da solo, ho bisogno d’aiuto, come Rossella O’Hara quando Mami le stringe l’abito sulla schiena. Il vero rituale comincia quando sono pronto, circa un’ora prima dello spettacolo. Allora salgo in scena, da solo, in silenzio; prendo lo spazio e affiora il personaggio».
Attore e autore, tra le altre cose. Le sue abitudini di scrittura?
«Per scrivere il testo mi sono fatto mandare dal teatro le scarpe di Mrs Fairytale. Ho scritto con i tacchi e il bustino, dettando a me stesso ad alta voce, con la zeta dura che inietta di una vena comica il personaggio. Sono
«FINO A 25 ANNI
ENTRAVO IN SCENA PER NON BALBETTARE, PER DIMOSTRARE AGLI ALTRI CHE ERO BRAVO E A ME STESSO CHE
ESISTEVO»
Dopo i titoli di coda di Mrs Fairytale, che cosa l’aspetta?
«Venivo da Mussolini, per un film di Bellocchio, così maschio e così nero. Mi sono chiesto: come posso spingermi oltre? Recitando una donna! Favola nacque così. Dopo Mrs Fairytale ho fatto Don Giovanni, che è esattamente il contrario. È tutto collegato. Io sono questo. Di me non c’è troppo da capire. Oppure sì. Che ne so».