L’ITALIANO PERCEPITO E LE SUE ILLUSIONI OTTICHE PERCHÉ TANTO PESSIMISMO?
UN TEMPO LE RASSEGNE STAMPA si facevano con forbici e colla. E così facevamo noi dell’Accademia degli Scrausi: un gruppo di ragazze e ragazzi che, seguendo i corsi di Luca Serianni all’Università La Sapienza, aveva deciso di vivere in modo divertente la passione per la lingua italiana. C’erano gli incontri a casa di uno di noi, i convegni in facoltà, gli studi sulle canzoni e sulla letteratura di quegli anni. E poi c’era la rassegna stampa. Si distribuivano i giornali da leggere, si ritagliavano gli articoli sulla lingua e a fine mese si fotocopiava un fascicoletto che li teneva insieme.
Trent’anni dopo, la rassegna ce la fa direttamente il motore di ricerca: ma gli articoli sulla lingua continuano ad avere spesso lo stesso tono allarmato e apocalittico. Accade così che nel giro di pochi giorni le pagine in rete di alcune tra le principali testate nazionali abbiano ospitato contributi con titoli come Ma l’italiano esiste ancora?; La dolce morte dell’italiano; Scuola, allarme italiano lingua morta. Il primo è sulle parole inglesi, il secondo sullo schwa e sull’asterisco, il terzo sulle competenze scolastiche dell’italiano. Al netto dell’enfasi aggiunta dai titoli, tre articoli accomunati da una visione pessimistica sulle attuali condizioni della nostra lingua. Ma le cose stanno davvero così?
Non potendo qui affrontare analiticamente le diverse questioni, mi limito a osservare che questo pessimismo è un retaggio tradizionale. Una specie di riflesso condizionato che da secoli scatta nei confronti di ogni novità linguistica e più in generale di ogni evoluzione della società (le due cose sono sempre legate). Il risultato è un «italiano percepito».
Il
della nostalgia
Il fenomeno dell’italiano percepito va messo in relazione con quello che è stato chiamato «sentimento della lingua»: il legame affettivo, prima ancora che normativo, nei confronti della propria lingua madre. Oggi potremmo ricondurre il concetto alla nozione sociologica di sentiment .Un comune sentire che è spesso influenzato da spinte emotive più che da dati oggettivi: basta pensare ad argomenti come immigrazione e criminalità. In ambito linguistico casi tipici sono la «morte del congiuntivo» (morte presunta, ma annunciata già da oltre mezzo secolo), la «scomparsa dei dialetti» (che ancora nel 2015 un terzo della popolazione diceva di parlare alternandoli all’italiano) o l’«invasione» delle parole inglesi (che nei vocabolari italiani non superano il 3%).
Quanto alla scuola, è giusto e doveroso riflettere su come aggiornare metodi e approcci dell’insegnamento linguistico. Ma non bisogna cedere alla tentazione di rimpiangere un passato fatto a lungo di analfabetismo diffuso e scuole elitarie. E comunque di lamentele. «Salvo i giovanetti di mente sveglia, gli altri, sebbene non stupidi addirittura, arrivano al Ginnasio, passano al Liceo, entrano nell’Università, e finalmente anche nelle professioni, nei pubblici ufficj, nel Parlamento, che non sanno cansare gli errori più ovvj d’ortografia». Così scriveva il filologo Francesco D’Ovidio: era il dicembre 1871.
I DATI OGGETTIVI SMENTISCONO MITI COME L’«ITANGLIANO»
O LA MORTE PRESUNTA DI CONGIUNTIVO E DIALETTI
Ci sono autori che scrivono libri sulle piante. Ci sono botanici che scrivono libri. E poi c’è Antonio Pascale. Fa l’ispettore agrario per il ministero, stima i danni delle calamità naturali, una specie di agrimensore delle apocalissi, dalle alluvioni alla Xylella; come scrittore, ha affinato un umorismo sentimentale, da flâneur. In La foglia di fico (Einaudi) scrive di sé e di noi, uomini e donne, intrecciando le storie delle piante: dal minimalismo resiliente del cactus al desiderio contraddittorio del fico. Nel libro ci accompagna nel suo giardino di ricordi e ci dà gli strumenti per leggere anche il giardino della vita di ognuno di noi. La prova?
Lo incontriamo a Villa Sciarra, storico giardino pubblico di Roma, in zona Monteverde. Vuole mostrarci un albero che è restato fuori dalla raccolta, ma che in autunno è impossibile non notare. «Eccolo – fa Pascale – è il ginkgo biloba». Mi indica una fontana di foglie gialle, tra il senape e il canarino:sembra l’origami di un fuoco d’artificio. Lo riconosco, è l’albero alla cui ombra sono cresciuto nella casa d’infanzia, ma ne ignoravo il nome. «Un albero molto speciale», dice. «Oltre alla bellezza, oltre al tappeto di foglie gialle che si forma in autunno sotto la chioma... Questo albero è tra le specie hibakujumoku, ovvero alberi esposti al bombardamento atomico che sono sopravvissuti o hanno germogliato, alcuni erano bruciati e ridotti male. Hanno risorse e potenzialità, e una fisiologia, che ancora non siamo riusciti a capire, ma che possono tornarci utili, o che, simbolicamente, ricordano aspetti della natura umana, che ancora oggi, tra l’altro, non siamo riusciti a capire».
Che storie si possono costruire con il ginkgo biloba protagonista?
«Su temi come forza, radicamento, adattamento, combattimento, trauma, rigenerazione, luce, speranza».
Qual è la prima cosa che guarda in una pianta?
«Il portamento, salta agli occhi. La corteccia, spesso anche per capire la specie, quando non ci sono foglie. Di alcune piante mi affascinano le radice, soprattutto quando sono superficiali, come in certi faggi secolari e sembrano piante e a sé. Questo riguardo la botanica, poi ci sono i sentimenti…».
Cioè?
«Nei confronti degli alberi ho avuto sempre uno sguardo particolare, più sentimentale che botanico. Da ragazzo balbettavo, sa, quegli handicap che ti rovinano l’adolescenza e comunque, perdendo la parola avevo acquisto uno sguardo diverso. Finiva che antromorfizzavo tutto. Le querce mi sembravano giganti buoni, le braccia aperte in mezzo ai campi mi invitavano a un abbraccio. I pini su alcune colline erano soldati in parata, luminosissimi, allegri che mi festeggiavano. Per scrivere il libro, ho
Antonio Pascale è nato a Napoli nel 1966, è vissuto a Caserta, poi a Roma, dove lavora. È scrittore, saggista, autore teatrale e televisivo e ispettore presso il Mipaaf (Ministero
delle politiche agricole alimentari
e forestali)
«Il ciliegio però non è effimero, anzi. Il ciliegio è simbolo del desiderio, vuoi i fiori bianchi che a primavera scintillano, vuoi le ciliegie... quante canzoni napoletane sulle ciliegie. Il desiderio fonda l’amore e l’amore si basa anche sul senso del possesso, difficile amare senza dichiarare “sei mia”, “sono tuo”, e le sofferenze d’amore si verificano quando lei o lui non sono più tuoi. Insomma, questa ambivalenza fonda l’amore, il ciliegio la esprime, bello desiderare di essere di qualcuno/a ma il possesso si sa, può uccidere o far del male. Nella nostra cultura, perlomeno. In Giappone il ciliegio è simbolo dell’impermanenza. Sono bellissimi i ciliegi in fiore ma anche effimeri, durano poco, dunque è meglio non affezionarsi troppo alle cose, piuttosto alleniamo il nostro sguardo a cogliere la bellezza perché essa è destinata a svanire non a durare, proprio come i nostri desideri, l’impermanenza, quando funziona, insegna la misura, ti ricollega ai margini e non al centro. Il cento è un brutto e tradizionale punto di osservazione». Dall’amore al desiderio, con il fico. Pulsione vitalistica e contraddittoria.
«Si coprono le vergogne con la foglia di fico. Vergona di essere mortali, disobbedienti, caduti e feriti, destinati a recuperare l’amore di quel dio che abbiamo tradito con la conoscenza. La solita vecchia storia, il potere cerca di alzare le mura per non farci uscire. Il libro tenta di esaminare la nostra condizione raccontante queste vergogne, cioè la mortalità e la disobbedienza, ma anche la pulsione che diventa dio onnipotente e procura danni al prossimo».
La morte, nel libro, è l’immagine di suo nonno che guarda la tv senza segnale, un verminaio bianco e nero. A cosa associa lei la morte?
«Una buona morte? All’anestesia totale. “Conta fino a cinque”, ti dicono i medici, cominci a contare e nemmeno arrivi a cinque. Cosa è successo in quei momenti non lo sai, sai che il risveglio è faticoso, doloroso ma poi migliori».
Si dichiara ateo. Ma ha una visione sacra della natura, religiosa.
«In genere gli atei, i senza dio, insomma, hanno una buona consapevolezza della solitudine, apprezzano i momenti di condivisione. Penso a quelli intensi nella vita contadina: sotto le querce o i pergolati, di vite o di glicine, quando i contadini mangiano e dicono: “Favorite?” Col coltello in mano pronti a spezzare il pane e offrirtelo».
Nei racconti sottrae momenti di vita all’oblio. Cosa ricorda con piacere?
«In genere le carezze, momenti delicati che seguono una riconciliazione e magari si è ancora troppo orgogliosi per un gesto forte, e si comincia con uno lieve. Ricordo più facilmente i tocchi lievi sulle guance o gli occhi che si incrociano per un attimo, l’energia potenziale, pronta a manifestarsi al prossimo movimento». Ad esempio?
«Un paio di carezze che mi fa fatto mia figlia dopo un momento difficile».
La memoria re-inventa, è una pianta piena di innesti di fantasia. Ma è difficile rendersene conto.
«Di recente ho assistito a una scena al bar. Una donna parlava con un uomo e gli spiegava che da tempo ripensando al passato ha sentito la necessità di incontrare le persone care per ricordare i bei tempi, ebbene si è resa conto che i ricordi era completamente diversi, lei si era fatta un film, lui un altro. Descriveva una condizione comune a tutti».
«AMO LE CAREZZE, MOMENTI DELICATI CHE SEGUONO UNA RICONCILIAZIONE, QUANDO SI È ANCORA TROPPO ORGOGLIOSI PER UN GESTO
PIÙ FORTE»