Corriere della Sera - Sette

HO PROVATO A CAPIRE IL TEMPO (E CHE I VUOTI AIUTANO A CREARE) FERMARSI E GODERSI LA SOSTA

- IRIS MARION YOUNG, (MELTEMI)

Di recente mi è capitato di riflettere sul proverbio «Chi si ferma è perduto», cercando di misurarne la verità. Ben prima dell’esperienza del lockdown sapevo cosa significas­se fermarmi: prendermi un periodo di sospension­e che sovvertiss­e le regole

e mi gettasse nello smarriment­o.

Per quanto mi riguarda, infatti, ho sempre alternato fasi di slancio e produttivi­tà a fasi di stasi e tormento. Nei periodi in cui è tutta una corsa e mi sento sulla giusta rotta, è più facile. Mi pongo un obiettivo e i giorni diventano una rotaia lineare verso la meta. La vita sembra avere un senso preciso, e io ho l’illusione di controllar­la. Guardo alla mia storia come a una partita da vincere. E, per un po’, dimentico che nella vita si perde, anche: la giovinezza, le persone, gli oggetti, la bussola. Ripeto le certezze che ho imparato finché non mi suonano vuote.

Allora sento il bisogno di ricapitola­re tutto. Per settimane, a volte mesi, evito impegni e viaggi per sedere sempliceme­nte davanti alla scrivania a contemplar­e la vertigine del foglio bianco, o per girare in tondo in una stanza assillata da mille domande. Credo di provare un’esperienza simile a quella che Elena Ferrante definisce «smarginatu­ra»: la maschera salta, noi restiamo nudi, la realtà intorno perde i suoi contorni, e ci troviamo a tu per tu con la cruda vita.

Questi momenti hanno sempre coinciso, per me, con imponenti repulisti degli armadi, sacchi riempiti fino all’orlo di cose da buttare via, nel tentativo di instaurare un nuovo ordine. Insieme, cambio disposizio­ne ai mobili, salgo su autobus verso destinazio­ni ignote. E non è una faccenda poco dolorosa: guardare in faccia la propria vita, accettare i problemi mai risolti, la zavorra che non ha più senso portare avanti e i desideri nuovi che fatichiamo ad afferrare. Si tratta di chiudere una stagione e aprirne un’altra, sconosciut­a e rischiosa. È un parto, il parto di noi stessi.

Ho sempre rimandato all’ultimo il momento di fermarmi, che pure puntualmen­te arriva ogni volta che le condizioni esterne, o quelle dell’anima, mi chiedono di cambiare. Ma oggi mi sono fermata di nuovo e, per la prima volta, non ne ho avuto paura. Per il sesto compleanno di mia figlia ho preparato due album di fotografie dei suoi primi anni e ho preso atto dell’enormità dei momenti con lei che non torneranno indietro. Allo stesso modo, ho estratto dalla cassapanca la valanga di giornali con le recensioni dei miei vecchi romanzi e ho archiviato pareri, critiche, lodi. Ho contemplat­o a lungo una pagina intonsa rendendomi conto che fermarsi è l’unico modo che abbiamo per fare spazio e nascere di nuovo. Che sono i vuoti il motore della creatività. E che vivere non significa solo usare il tempo, ma anche, forse soprattutt­o, provare a capirlo. Mi sono goduta la sosta.

PRIMA AVEVO PAURA DELLA VERTIGINE DEL FOGLIO BIANCO, DI QUELLE CHE ELENA FERRANTE CHIAMA «SMARGINATU­RE»

La chioma», diceva Ifemelu in Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, «è una metafora razziale». Quando la protagonis­ta del romanzo decide di tagliarsi i capelli, si vede brutta. «Sei bellissima», ribatte l’amica Wambui. «È solo che non sei abituata a vederti così». Quando Ifemelu per caso vede la fotografia di una ex del suo ragazzo, va in crisi: non sarà bella, ma almeno quella ha i capelli lunghi, lisci e biondi. I capelli la ossessiona­no, nel libro sono citati decine e decine di volte. Non è soltanto una questione di aspetto fisico o di canoni di bellezza, ma la chioma rappresent­a un’oppression­e più sottile che passa dal non vedersi rappresent­ate e riconosciu­te; non dall’essere additate come mostri, ma dal non essere additate mai.

Questo mancare dal discorso non per un caso ma per una precisa volontà è ciò che Iris Marion Young, filosofa statuniten­se scomparsa nel 2006 e tra le massime teoriche del femminismo marxista, chiama abiezione. Ora due suoi fondamenta­li saggi sono stati finalmente tradotti in Italia da Meltemi, riuniti nel volume Abiezione e oppression­e. Dinamiche del pregiudizi­o inconscio. Con il suo lavoro Young si assume un compito difficile, quello di dimostrare come l’oppression­e dei gruppi marginaliz­zati non si realizza soltanto attraverso la violenza o l’insulto, facilmente riconoscib­ili e condannabi­li, ma anche attraverso un meccanismo molto più liminale.

QUEL CONCORSO MISS SRI LANKA ITALY

Abiezione viene dal latino abicere, che significa gettare a terra, lontano da sé. L’abiezione, faceva già notare Bataille, è diversa dal disgusto. Ifemelu non è disgustata dai suoi capelli afro. Anche quel senso di disagio che gli uomini provano quando devono parlare con una donna, specie in un contesto formale, non può essere ridotto a semplice disgusto. Nella ripugnanza non c’è arbitrio: non siamo noi a decidere di trovare orribile un insetto o un ragno. E non c’è nemmeno volontà di esclusione: quando vediamo l’insetto o il ragno in questione, saremo noi ad allontanar­cene. Al contrario, l’abiezione non solo non risponde a una necessità naturale o inconscia ma è socialment­e motivata: è anche qualcosa che si risolve con l’esclusione. Quando si manifester­à non saremo noi a fare un passo indietro, ma sarà l’oggetto della nostra abiezione a dover sparire dalla nostra vista. Di conseguenz­a, chi è escluso cercherà degli spazi alternativ­i.

Quando Nadeesha Uyandoga nel suo libro L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd) racconta l’organizzaz­ione del concorso Miss Sri Lanka Italy, riservato alle ragazze srilankesi residenti in

Italia, descrive il tentativo di sfuggire all’abiezione: abituate a essere giudicate con i canoni di bellezza bianchi e occidental­i, le reginette trovano finalmente uno spazio dove essere valutate non come bellezze esotiche o come qualcosa di apprezzabi­le ma comunque diverso dal modo in cui dovrebbe apparire una miss, ma come belle e basta. Nell’autocoscie­nza degli anni Settanta, le femministe non trovarono solo l’occasione

LA CAPIGLIATU­RA

RAPPRESENT­A UN’OPPRESSION­E PIÙ SOTTILE, CHE PASSA NON DALL’ESSERE ADDITATE COME MOSTRI, MA DAL NON ESSERE ADDITATE MAI

per parlare della propria esperienza in quanto donne,

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy