ANAÏS NIN, LA SEDUTTRICE PER 100 DOLLARI AL MESE
CHE SCRISSE DI SESSO
Lui la amava per quella faccia «sofisticata», lei lo amava per la scrittura «ardita virile animalesca, e le labbra sensuali», il loro incontro fu folgorante: la signora molto inquieta nata bene di sangue misto andaluso e sposata meglio con un banchiere che sempre l’avrebbe amata nonostante tutto, andava a caccia di geni letterari nella Parigi degli anni Trenta e con i soldi di lui li manteneva. Così Anaïs Nin fece anche con Henry Miller, scrittore squattrinato per eccellenza. Un amore furente ma anche molto letterario, tantissime le lettere, tante le poesie scritte reciprocamente alla fine di ogni incontro, ancora di più le pagine di Diario che andranno a comporre l’ossatura dell’ opera di Anaïs. E che faranno di lei la prima scrittrice erotica, una innovator capace di affermare in questo campo il punto di vista femminile.
Henry è un grafomane e solo nel primo anno del loro amore manda ad Anaïs 900 pagine scritte a macchina. Si consigliano, si illuminano, fanno scattare reciprocamente i pensieri, parlano dei loro demoni letterari, Lawrence, Gide, Dostoevskij, Proust. «La stessa cosa che rende indistruttibile Henry è quella che rende indistruttibile me: è il fatto che il nucleo di entrambi sia uno scrittore, non un essere umano». Vivere dunque ma prima di tutto registrare, analizzare, reinventare sulla carta una realtà in cui rifugiarsi, un mix inedito di trasgressione, biografia, letteratura. «Noi apparteniamo al futuro» conclude lui.
In quella Parigi lei domina su una piccola corte di geni e di amanti, Miller – che lei, di cultura francoinglese, chiamerà sempre Millèr – ma anche Salvador Dalì, Antonin Artaud, il rivoluzionario peruviano Gonzalo More –, ingorda di eccellenza, di genialità, di erotismo e di parole. Si concede grandi trasgressioni, scrive Il Delta di Venere, racconti erotico letterari a 100 dollari al mese che il suo committente, un collezionista di libri, avrebbe voluto solo di sesso («Lasci perdere la poesia e si concentri solo su quello»), ma lei insisteva su una diversa cifra. E alimenta un breve triangolo amoroso con Miller e la moglie di lui, June Mansfield, donna di bellezza assoluta interpretata al cinema, in Henry e June, da Uma Thurman, che subito attrae anche Anaïs, non bellissima ma intrigante e soprattutto desiderosa di sedurre. Era quello il suo daimon, il rovello nascosto, la molla dell’occulta follia, forse perché era sempre all’inseguimento del padre, il pianista Joaquin Nin, «ombra elegante ed egocentrica» che aveva abbandonato la famiglia quando lei aveva 11 anni. Lo reincontrò fuggevolmente a Parigi e ne nacque La casa dell’incesto, libro scritto fra fantasia e realtà.
Per un breve periodo, lei che era in analisi da tanto, decide di diventare psicanalista a sua volta e segue in America Otto Rank, sua ennesima preda sempre per quell’impulso inesauribile di inseguire l’ombra del genio. La sua gloria di donna scandalosa che aveva osato raccontare i desideri sessuali delle donne, fu, come profetato da Miller, perlopiù postuma.
LA RELAZIONE CON HENRY MILLER, CHE SOLO NEL PRIMO ANNO
LE MANDÒ 900 LETTERE D’AMORE SCRITTE A MACCHINA
ome fosse ieri. Era un piccolo appartamento al piano terra di un residence alle cascate di Lillaz. Ilaria e Fabiola, le sue sorelle più piccole, aprirono la porta dell’ingresso con una espressione raggiante. «È di là, adesso arriva». Dopo cinque minuti, Annamaria Franzoni entrò con un passo quasi militare. Si piantò nel mezzo del salotto, con le ginocchia piegate in avanti, in posizione da sci. E con le mani che si muovevano in avanti sui fianchi, come se stesse scagliando qualcosa in avanti, disse con tono enfatico che aveva dei missili da sganciare, adesso che era tornata libera quelli che non le credevano, che la accusavano, avrebbero tremato. «Ora le tiro io le bombe, altro che le loro balle». Le
Csue labbra tremavano per la rabbia. «Siediti, che ti racconto cosa ho passato in carcere per colpa di queste m…» ordinò con tono perentorio. Per poi cambiare registro in un istante e chiedere all’ospite, con tono premuroso: tè o caffè?
Era il 3 aprile del 2002. Annamaria ogni tanto si interrompeva per prendere in braccio il figlio Davide, per baciarlo passandogli la mano tra i capelli. Incrociava spesso lo sguardo con quello di suo marito Stefano, seduto all’altro capo del tavolo, quasi a chiedere una implicita approvazione, ogni tanto parlava con la madre Chiara per decidere cosa preparare per cena. Sembrava una normale casalinga, e non la donna che da ormai due mesi stava ossessionando l’Italia intera. Ancora non si rendeva bene conto di quel che si stava muoveva intorno a lei. Si muoveva a tentoni, con qualche impaccio, come se fosse sotto l’effetto di un fuso orario. Il suo tempo si era congelato alla sera del 14 marzo, quando i carabinieri erano entrati nella casa di famiglia a Monteacuto Vallese, poco distante da Bologna per portarla in carcere. Era stata via diciassette giorni. Fino a quando una decisione a sorpresa del Tribunale del Riesame di Torino l’aveva rimessa in libertà, riaprendo una vicenda tragica che sembrava chiusa, e decretando così anche l’ufficialità di un impazzimento mediatico già in corso che avrebbe trasformato «il delitto di Cogne» nella più inspiegabile e controversa storia della cronaca nera italiana.
Chiamarono dalla redazione, primo pomeriggio del 30 gennaio 2002. «C’è una mamma depressa che ha ucciso il suo bambino in un paesino della Val d’Aosta, perché non ci fai un salto? Tanto stasera
no dei pochi “castighi” rimasti a disposizione dei genitori nel caso di un figlio trasgressivo è: «Questa settimana non esci di casa». Le misure preventive della pandemia usano lo stesso linguaggio e impongono l’identica limitazione della libertà. Credo sia questa una delle ragioni per cui i ragazzi mi hanno sempre parlato male del lockdown e mai accennato al pericolo di malattia o di morte legati alla diffusione
Udel virus. Dai ragazzi l’attenuazione delle misure preventive è stata festeggiata come una liberazione e non come una parziale vittoria nella battaglia contro l’epidemia. Comunque l’ingiunzione di stare in casa mi sembra sia stata rispettata, il che, trattandosi di adolescenti, significa rimanere in famiglia il più possibile. E le famiglie, nel complesso, hanno retto bene. Il disagio — in alcuni casi una vera e propria sofferenza psichica — è nato invece dall’aver costretto una moltitudine di ragazzi a rimanere “dentro”, non tanto in famiglia, quanto dentro casa. Perché una delle partite più importanti proprio della fase di sviluppo adolescenziale è quella dello stare “fuori” il più possibile e rimanere “dentro” solo lo stretto necessario.
È “fuori” che si cresce e si studiano le materie fondamentali della vita; “dentro” si corre il rischio di sprecare tempo per fare quei compiti scolastici che non possono garantire certo lo sviluppo delle competenze necessarie per smettere di essere solo figlio-studente e diventare sempre di più soggetto sociale e sessuale.