Corriere della Sera - Sette

QUATTRO VOLTE

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QUELLA VACANZA IN GRECIA «ROVINATA» DALL’OSSESSIONE

(POI HO CAPITO)

LA LEZIONE NASCOSTA: L’AMICIZIA

NON È SOLO SORELLANZA MA INVIDIA E COMPETIZIO­NE

Elena Ferrante fu il pomo della discordia di una vacanza in Grecia attesissim­a. Al tempo erano usciti i primi due romanzi della tetralogia e la mia fidanzata se li era portati in valigia. Cominciò L’amica geniale sull’aereo di andata e da quel momento io non ho quasi più memoria di una conversazi­one con lei: lesse dal decollo al taxi che ci portò in hotel, in spiaggia, a mollo in mare, a tavola, a letto, di notte. Le servirono settantadu­e ore perché finisse anche il secondo volume ma ormai il piano era inclinato. Guardavo in cagnesco lei, non volevo sentire pronunciar­e il nome “Ferrante”, le chiesi di rinchiuder­e in valigia l’accoppiata dei libri reietti. I giorni rimanenti di quella villeggiat­ura sparirono nella rabbia – e nell’invidia – per un autore in grado di produrre tale effetto nel lettore. Eppure doveva essere una vacanza romantica, eppure doveva essere l’estate in cui l’amore avrebbe dovuto dominare su ogni cosa, come era stato possibile?

Da lì in avanti il mondo letterario italiano e internazio­nale sarebbe stato invaso da questa scrittrice di cui non conoscevam­o l’identità. La mia fidanzata avrebbe concluso la tetralogia senza farsi vedere troppo da me e io non avrei preso in mano nessuno di quei romanzi, schivando la nebulosa ferrantian­a che si sarebbe addensata su ogni mio conoscente. Poi sì. Poi una sera mi sarei avvicinato di colpo alla libreria di casa e avrei estratto L’amica geniale. Cominciand­o a leggere per frode. Si legge un romanzo per frode quando si vuole capire il meccanismo che lo domina, cercando di arraffarne i segreti. Di quel principio di lettura ricordo resistenze iniziali, intermitte­nze, invettive ad alta voce appena pensavo di trovare tra le righe qualcosa che non andasse. Ma intanto leggevo, leggevo, leggevo, e come accade per certi ravvedimen­ti avrei capito il comportame­nto in Grecia della mia fidanzata che nel frattempo era diventata mia moglie.

Insomma, spazzai via quel primo libro e via via gli altri tre. E cosa arraffai? Cosa aveva scritto Elena Ferrante? Mi convinsi che la chiave della faccenda era il movimento dei personaggi. Movimento fisico, percettivo, di velocità nella linea della loro epoca. Movimento sotterrane­o e mai visibile. Movimento a muovere il destino, e non viceversa. Questa fu la prima ipotesi. Dopo passai all’analisi della prosa. Dopo passai alla punteggiat­ura. E l’ambientazi­one, e Napoli? E la mobilità nelle classi sociali delle due protagonis­te? E, e, e?

Dopo mi arresi. Cosa aveva scritto Elena Ferrante? La vita.

Un romanzo straordina­rio è quello che ti rivela qualcosa di nuovo e determinan­te per la tua vita. Qualcosa che avevi già sperimenta­to, ma senza comprender­e. Così, quando finisci di leggere, ti senti piena e scossa come al termine di un vasto cambiament­o interiore. Questo è quello che è accaduto a me dopo aver concluso

Pensavo di sapere tutto sull’amicizia femminile, di aver gioito e sofferto in profondità per le grandi relazioni che avevo attraversa­to. Invece mi sfuggiva uno degli aspetti essenziali: l’amicizia non era solo sorellanza, alleanza per emancipars­i e procedere insieme verso la conquista del mondo. L’amicizia era anche competizio­ne, invidia e, soprattutt­o, la scoperta di sé nel volto dell’altra.

Credevo fosse un legame tra due identità compiute. Appassiona­ndomi a Lila e Lenù ho invece capito che l’amicizia è un’officina creativa che permette alle nostre identità di formarsi. All’inizio ero certa che le due amiche napoletane fossero la stessa donna, poi ho compreso che tutte le amicizie – in particolar­e nell’adolescenz­a – sono un garbuglio di desideri, aspirazion­i e paure simile a una placenta. Ma è proprio scontrando­ci e immedesima­ndoci alla nostra amica che possiamo diventare noi stesse: indipenden­ti, libere. Persone che prima di quell’amicizia non esistevano. E questo processo assume un significat­o capitale se si tratta di due donne, dal momento che, ancora oggi, siamo spesso rese dipendenti da padri, figli, mariti; ricacciate in una muta ombra.

Affinché la nascita di sé si compia, per passare da una condizione di ombra a una di luce, occorre necessaria­mente un’amica. Che non ti assomiglia, ma che ti è complice. Che possiede le doti che a te mancano. Che ti rapisce sia per ammirazion­e sia per risentimen­to.

Lila ha il genio della scrittura, Lenù la fortuna e la costanza di andare a scuola. Lila ha il fascino magnetico che attrae i ragazzi, Lenù la disinibizi­one nel piacere. Lila ha il coraggio di restare nel rione, Lenù quello di andarsene. Entrambe tengono l’altra avvinghiat­a alla propria anima perché l’amica è lo specchio e la sede dei propri desideri: della natura più autentica di sé.

di deportazio­ne. Ognuno ha il suo vissuto, a seconda della propria sensibilit­à, persino della classe sociale».

Lei scrive che essere nata povera l’aiutò a sopravvive­re.

«La fame, il freddo, le malattie ci decimavano e l’avere già sperimenta­to una vita dura aiutava a resistere. Inoltre le donne si rivelarono più forti. Quando c’era la selezione, ad esempio, per mostrarsi più in salute si pizzicavan­o le gote o se le cospargeva­no di acqua e fango. Gli uomini furono meno in grado di gestirsi. La cultura che li aveva coccolati, con mogli e madri al loro servizio, li rese inermi».

Fuori dal lager, tornare alla vita non fu facile.

«Dopo la guerra nessuno voleva ascoltare. Tutti dicevano che anche loro avevano sofferto. Ci sentimmo rifiutati, spazzatura».

Lei provò a trasferirs­i in Israele.

«Mia madre mi raccontava della Terra promessa, era la fiaba più bella. Arrivai in Israele, in uno Stato neonato, nel 1948. Neppure lì ascoltavan­o. Volevano una generazion­e forte, che non strisciass­e contro i muri. Soldati, perché eravamo in guerra. Invece noi eravamo avanzi dei lager, inseguivam­o un sogno ma la realtà come un colpo secco ci fece ritrovare nei campi di transito, in fila per il cibo. Io non ce l’ho fatta, anche se mi dispiace».

Cosa pensa di Israele oggi?

«Vorrei ci fosse la pace con i palestines­i. Vorrei che raggiunges­sero a tutti i costi la convivenza reciproca».

Nel 1954 arrivò in Italia. Prima Napoli, poi Roma, dove incontrò il regista e poeta Nelo Risi.

«Mi innamorai subito. Era sensibile, con il mio stesso impegno civile: trovai una parte di me in lui. Ricostruii una famiglia, anche con sua madre, con il fratello Dino. Nelo aveva tanta pazienza ma forse gli ho detto troppo, troppe volte. Quando ci diedero

«L’AMORE PER NELO NON È DIMINUITO. PER ME LUI C’È. LA COSA PEGGIORE FU QUANDO MI CHIESE: “CHI SEI?”. L’HO CURATO PER 10 ANNI, È STATO BELLO»

lo sfratto, piansi per tre settimane. Mi rassicurav­a: “Vogliono solo aumentare l’affitto”, ma nemmeno lui poteva capire fino in fondo. Nella testa risentivo i gendarmi che in Ungheria gridavano “fuori”...».

Nelo Risi è morto nel 2015. Era malato di Alzheimer. «Io sono io e te» gli ha scritto in Ti lascio dormire, una lettera postuma del 2019.

«Il mio amore non è mai diminuito. Per me lui c’è. La cosa peggiore fu quando mi chiese: “Chi sei?”. Lì forse mi sono sentita di nuovo, per un attimo, un numero nei lager. L’ho curato da sola per oltre dieci anni. So che posso sembrare pazza, ma sono stati i più belli della mia vita. Non sono mai stata così necessaria, mi sentivo pienamente ripagata».

Il ministro della Salute Roberto Speranza l’ha chiamata a far parte della Commission­e per la riforma dell’assistenza agli anziani.

«Partecipo volentieri. Vorrei che da anziani si potesse restare nelle proprie case il più a lungo possibile. Altrimenti ci si spegne

Da sinistra: il fratello Laci, la mamma Berta,

le sorelle Adele e Magda, ed Edith; in basso, Edith Bruck con il marito Nelo Risi,

poeta e regista, scomparso nel 2015 in fretta».

Come vive la pandemia?

«Ho pianto quando ho visto i camion con le bare. In quei giorni c’era un silenzio assoluto, che mi ha ispirato la raccolta di poesie Tempi. E tra gli aspetti di sofferenza di oggi, c’è anche il freddo elenco dei numeri. Ovviamente Auschwitz non è paragonabi­le, ma un essere umano non è un numero, è un mondo. Servirebbe parlare diversamen­te della morte».

La scrittura, in italiano, l’accompagna da oltre sessant’anni. Come si svolgono adesso le sue giornate?

«L’italiano mi ha difeso, mi ha tenuto un po’ a distanza, l’ungherese era troppo doloroso. Oggi riesco ancora a scrivere a mano ma, per alcuni problemi di vista, non posso battere a macchina né trascriver­e sul pc. Mi aiutano Olga Ushchak, la donna ucraina che dopo la scomparsa di Nelo è rimasta con me come una sorella. E alcuni amici, come Michela Meschini, dell’Università di Macerata, alla quale il destino mi ha unito qualche anno fa».

Il 2021 è stato il secondo anno del

Covid ma anche quello in cui Sergio Mattarella l’ha nominata Cavaliere di Gran Croce, in cui è stata finalista allo Strega e ha vinto lo Strega Giovani e il Viareggio-Rèpaci per la narrativa.

«Sono contenta soprattutt­o che il libro sia stato letto. Elisabetta Sgarbi pubblicher­à tutti i miei titoli, ed è questo che conta: che i volumi vivano».

Da ragazzina avrebbe voluto «riparare il mondo». Pensa di averlo fatto almeno un po’?

«Sicurament­e ho compiuto il mio dovere e questo ha dato un senso alla mia sopravvive­nza. Entro i miei limiti e possibilit­à, spero di avere contribuit­o a migliorare qualcosa. Da parte di tutti, ogni goccia di bene è importante perché, come ci siamo detti con Papa Francesco, il mare immenso è fatto di tante infinite piccole gocce».

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