LA «BRAMOSA VOGLIA» DI CAPIRE IL CAOS DENTRO
LEONARDO, ULISSE, FREUD
Una volta Leonardo da Vinci aveva immaginato di compiere un viaggio strano, nei pressi di una «gran caverna». A muoverlo era la «bramosa voglia», scrive, di vedere «la gran copia delle varie e strane forme» prodotte dalla «natura». Arrivato nei pressi della caverna era stato preso da «paura e desiderio»: paura per l’oscurità della grotta; desiderio perché voleva vedere cosa si nascondesse dentro. Finalmente deciso, aveva allungato lo sguardo in quell’abisso. Ma vi aveva trovato solo una notte impenetrabile. Non è dato all’essere umano scorgere la fonte, quel «primo caos», da cui tutto deriva, in cui vogliamo sempre «rimpatriare e ritornare».
Curiosamente, questo racconto ricorda un’avventura celebre, quella di Ulisse e Polifemo. Contrariamente a quanto si ritiene, all’Ulisse omerico non interessa conoscere – vuole solo tornare a casa (sarà Dante a trasformare Ulisse nell’eroe della conoscenza, ma questa è un’altra storia). Nell’Odissea capita una volta soltanto che Ulisse sia mosso dal desiderio di esplorare, di conoscere, di capire. È davanti all’immensa grotta di Polifemo: lì, mentre i compagni lo esortano a fuggire (perché il pericolo è evidente), Ulisse prova un desiderio irrefrenabile di entrare, perdendosi in quel posto che gli risulta oscuro, incomprensibile. Che avesse sentito anche lui la «bramosa voglia» di rimpatriare e ritornare? Ma cosa intendeva davvero Leonardo quando parlava di «rimpatriare», descrivendo quella grotta avvolta in un’oscurità impenetrabile? Dove è la nostra patria?
Qualche secolo dopo, a questa domanda avrebbe provato a rispondere anche Sigmund Freud, senza capire veramente neppure lui cosa fosse veramente in gioco – e infatti parla di «un’ipotesi fantastica», quasi a volersi giustificare. Siamo verso la conclusione di un piccolo saggio, densissimo, Al di là del principio del piacere. Era la scoperta che dentro di noi operano pulsioni di morte nascoste, quasi che una parte di noi anelasse a rientrare nel grembo materno, perdendosi in quel magma informe in cui tutto è uno, privo di distinzioni. Saremmo insomma, fin nelle cellule che ci costituiscono, esseri ancipiti, in preda al conflitto tra, da un lato, la spinta a crescere e svilupparci – questa secondo Freud è la potenza di eros – e dall’altro, appunto, questi impulsi a perderci (thanatos), ritornando a uno stato primordiale, inorganico, di unità con il tutto, in cui ogni principio di individuazione viene meno. Come se ci si ritrovasse di nuovo nel grembo materno, in quel posto di perfezione divina. È un’ipotesi «fantastica», certo. Ma non è anche vero che una simile ipotesi potrebbe aiutare a spiegare tanti comportamenti, quella spinta alla (auto)distruzione, collettiva o personale (si pensi alla droga), altrimenti difficili da capire? Di questo parlavano, o meglio cercavano di parlare anche Leonardo e Omero, nel tentativo di fare chiarezza nelle nostre oscurità. È ancora lunga la strada da percorrere, prima di capire cosa si nasconde davvero dentro noi stessi.
LUNGA LA STRADA PER COMPRENDERE COSA SI NASCONDE NELLE OSCURITÀ IN CUI SENTIAMO L’IMPULSO DI PERDERCI
rio, nemmeno nei momenti più importanti, quando era al centro di tutto. Paolo era un ragazzo buonissimo, simpatico e sveglio. Era un amicone, una persona davvero piacevole, corretta ed educata, oltre che un campione. Ci manca, eccome se ci manca». Anche il talento di Pablito era nato all’oratorio, a Prato. Lei che ricordo ha del suo oratorio a Mariano del Friuli?
«Altro mondo, sì. Lì sono nato e sono cresciuto. Giocavo da portiere nel Mariano e lavoravo prima in un’officina di Cormons e poi a Gorizia. Avrei fatto il meccanico, se non avessi sfondato nel calcio. Poi ci sono state l’Udinese, il Mantova, il Napoli, la Juventus, la Nazionale. Ma lì c’è la mia gente, ci sono le mie radici, la mia lingua, il friulano, che è bellissimo. Ormai da moltissimi anni vivo a Roma, che adoro. Ma dentro sono sempre friulano. La sera spesso leggo le poesie in friulano di Pasolini. Bellissime. Però non fatemi passare da intellettuale, che non lo sono mai stato. Io ho sempre solo giocato a pallone».
Oggi tutti sanno tutto. O almeno ne sono convinti.
«In Friuli si dice: chi parla tanto sa poco. Non è sempre vero, ma in generale sì».
Si è mai chiesto cosa avrebbe fatto, come si sarebbe comportato, se ai suoi tempi ci fossero stati i social network? Sarebbe stato lo stesso Zoff che conosciamo?
«Oggi c’è la tendenza a far vedere tutto, anche le cose che sarebbe opportuno tenere per sé. C’è un’esasperazione mediatica del piangere, del ridere, tipica di questi tempi. Ripeto, anche ai nostri tempi c’era chi andava sopra le righe, erano gli anni Sessanta e Settanta, l’epoca della contestazione, ma era qualcosa di diverso. Oggi vedo tanti balletti, pianti. Mah. Io vengo da una zona morigerata, dove c’era un po’ di vergogna nell’esprimere sentimenti. Oggi no. Credo che un po’ così si perda la sostanza delle cose, se tutto è spettacolo».
In un’intervista a Paolo Tomaselli per il Corriere, ha detto che la sua massima esultanza fu il bacio a Bearzot dopo Italia-Brasile.
«Direi di sì. E ci vergognammo un po’, per il pudore che avevamo. L’esasperazione nei festeggiamenti non mi è mai piaciuta. Anche per rispetto degli avversari».
Un po’ di tempo fa è saltata fuori una foto di lei che balla in una discoteca degli Anni 70: ha fatto il giro del web.
«Festeggiavamo uno scudetto e non mi tiravo indietro. Ma a quei tempi si andava a ballare solo dopo una vittoria del campionato, mica tutte le sere. Era una cosa straordinaria. E si faceva tardissimo, si tornava a casa all’alba. Ricordo la vergogna mia e di Capello, una volta che siamo usciti da un locale quando la gente andava a lavorare». Quindi l’immagine dello Zoff schivo e solitario era sbagliata?
«VIVO A ROMA, CHE ADORO. MA DENTRO
SONO SEMPRE FRIULANO. LA SERA SPESSO LEGGO LE POESIE IN DIALETTO
DI PASOLINI. SONO BELLISSIME»
«Non entro nella questione personale, pure ai nostri tempi i soldi erano importanti. Credo che non debbano però essere l’aspetto decisivo, non quando si è giovani e si ha tutta una carriera davanti. Ma Gigio è fortissimo, ha un talento enorme, è un campione. I fischi a San Siro prima della partita della Nazionale a ottobre non mi sono piaciuti. All’Europeo è stato determinante. Abbiamo la memoria corta».
Il 28 febbraio fa 80 anni. Che regalo desidera?
«Ne vorrei due. Personalmente, solo la salute. Nella vita ho avuto tanto, più di quello che potevo sognare. L’altro me lo devono fare gli Azzurri: dobbiamo andare al Mondiale, siamo l’Italia».