FU NEGLI ANNI 60, DIVENNE E RIPARTÌ COL
CATTIVIK KOSSIGA NEI 70 BIMBOMINKIA
«CERCASI ATTORE PER INTERPRETARE la parte di Diabolik». Ci sono coincidenze che creano cortocircuiti temporali. Come quella di trovare nella casa di famiglia al mare uno strepitoso volumetto – Le forche caudine di Enzo Tortora (1967) – in cui si fa riferimento a un futuro film sul fumetto delle sorelle Giussani. Non quello che è nelle sale in queste settimane, ovviamente, ma quello del 1968 per la regia di Lamberto Bava. Con il tono di affilata ironia che caratterizza tutto il libro, Tortora sofferma la sua attenzione su un aspetto linguistico: «l’abuso del “k”». Il capitolo s’intitola, infatti, Ci «skappa» il morto e il riferimento è a personaggi fumettistici allora in voga come Sadik, Magik, Kriminal o appunto Diabolik. Quella lettera «che nel nostro dizionario non esiste», osserva, viene usata «come crisma e patente di indubbia raffinatezza», «come pennellata esotica» per nobilitare «gli “swing!” e gli “slump!” dei loro micidiali coltelli».
Non sarà un caso, possiamo dire col senno di poi, che in quello stesso anno sarebbe uscito il film comico Arriva Dorellik (protagonista l’attore e cantante Johnny Dorelli); di lì a poco le prime strisce del Cattivik creato da Bonvi, il disegnatore di Sturmtruppen, e l’esordio di Paperinik con disegni di Giovan Battista Carpi e sceneggiatura di quel Guido Martina che vent’anni addietro aveva scritto L’Inferno di Topolino. Ma intanto, notava allarmato Tortora, «i quattro “K” furoreggiano, dicono gli edicolanti»: «travolgono già l’Alighieri a dispense». E la prepotente avanzata sarebbe durata ancora a lungo, andando ben oltre i confini dei fumetti.
Se skappa la kappa
«Kossiga», «amerikano», «okkupazione». Risale agli anni Settanta l’uso del cosiddetto «kappa politico», che nelle manifestazioni dei movimenti di protesta e nelle scritte sui muri sopravviverà ancora fino ai primi anni Duemila: «Il piombo sui compagni non si dimentika, Carlo vive». Anche se nel frattempo era già cominciata quella progressiva trasformazione che l’avrebbe portato a diventare il k ludico della comunicazione digitale. «Che ci posso fare, ogni tanto mi scappa la kappa», diceva una sedicenne intervistata dal Corriere della Sera nel 2002. Intendeva nei compiti, come conseguenza dell’abitudine ormai invalsa nei messaggini sms e di lì tracimata in tutte le scritture giovanili. «Ke ironia qnd alla Ale kiedevo ke c trovasse in quel bastardo» (Luana Modini, Cuore Nuovo, 2007). Come Tortora temeva tanti anni prima, la lettera sembrava in procinto d’invadere anche le «skuole».
E invece le mode passano veloci, soprattutto tra i giovani, e la rapidissima obsolescenza tecnologica trascina con sé anche quella linguistica. Sono passati già dieci anni da quando, su Twitter, Zoro prendeva in giro Enrico Letta per aver usato un «ke» in un post: «Letta giovane che scrive co la k!». E l’allora vice e oggi segretario del Pd (a proposito di cortocircuiti temporali) rispondeva autoironicamente con lo stesso appellativo affibbiato dai ragazzi a chi – fuori tempo massimo – si ostinava a usare quella lettera: «avrò nascosto nel Dna un po’ di bimbominkia?».
ENZO TORTORA GIÀ NEL ’67 NE AVEVA EVIDENZIATO «L’ABUSO». PARTENDO DA DIABOLIK, I DECENNI DI VITA DI UNA LETTERA
utti l’abbiamo visto almeno una volta, il gesto delle mani che “semplificano” qualcosa è diventato un’icona eppure pochi l’hanno sentito parlare. Fa effetto sentire la voce di Khaby Lame, re di TikTok grazie agli oltre 123 milioni di follower e uno degli italiani più seguiti nel mondo (o “quasi italiano”, come vedremo). Più che sentire dovremmo dire udire perché Khaby, come lo chiamano tutti, è rimasto un ragazzo timido. Nonostante l’incetta di seguaci, pubblicità e imitazioni – tra le ultime la squadra Nba dei San Antonio Spurs che ha usato il “suo” gesto per festeggiare una vittoria – è di pochissime parole. E sono poche anche quelle che spende in Super Easy, graphic novel in uscita per Mondadori che lo vede nei panni di autore e protagonista. Possiamo vederla come una biografia romanzata», dice il 21 enne nato in Senegal e residente a Chivasso. «Ho voluto fare questo libro per trasformarmi in un eroe che semplificava le cose… Così ci siamo messi lì e dopo tante chiamate abbiamo tirato fuori queste pagine». Il plurale è d’obbligo perchè accanto a Lame ci sono due fumettisti di lungo corso come il disegnatore Pietro B. Zemelo e lo sceneggiatore Giulio D’Antona.
Con tavole brevi e incisive, Super Easy vuole far ridere e riflettere ponendo Lame al centro di un mondo che va “semplificato”. Un capitolo via l’altro, sotto i nostri occhi si svolge la sua vita, una miscela di realtà e finzione che strappa qualche sorriso. Lo si vede da bimbo che aiuta il padre nell’eterna lotta con il computer che non si accende: attacca semplicemente la spina e la indica con il suo gesto plastico. «È un fatto vero», precisa ridendo, «fin da piccolo i miei mi chiedevano di aiutarli a fare qualcosa e io eseguivo». Si prosegue con la scuola («Andavo malissimo, in quarta elementare mi hanno anche bocciato») e con uno degli avvenimenti
Tpiù curiosi della sua vita, quando è stato mandato dai genitori in Senegal. «Avevo 13 anni, stavo a Chivasso e non mi comportavo troppo bene», racconta oggi con il sorriso sornione che è diventato il suo marchio di fabbrica. «Alla fine sono stato lì un anno ma poi sono tornato».
Nella finzione, il ritorno è una svolta. Quel bimbo diventa un ragazzo e poi un supereroe, il Semplificatore, colui che aiuta il mondo offrendo soluzioni facili a chi si sta complicando inutilmente la vita. Anzi, di più perché Lame nei suoi TikTok è democratico. Mostra come tutti possano fare cose che gli influencer presentano come complicate (e non complesse, attenzione) solo per distinguersi. Alla climber che si mostra mentre spolvera il televisore arrampicandosi su un mobile a testa in giù, per esempio, lui rispon