Corriere della Sera - Sette

FU NEGLI ANNI 60, DIVENNE E RIPARTÌ COL

CATTIVIK KOSSIGA NEI 70 BIMBOMINKI­A

- DI GIUSEPPE ANTONELLI

«CERCASI ATTORE PER INTERPRETA­RE la parte di Diabolik». Ci sono coincidenz­e che creano cortocircu­iti temporali. Come quella di trovare nella casa di famiglia al mare uno strepitoso volumetto – Le forche caudine di Enzo Tortora (1967) – in cui si fa riferiment­o a un futuro film sul fumetto delle sorelle Giussani. Non quello che è nelle sale in queste settimane, ovviamente, ma quello del 1968 per la regia di Lamberto Bava. Con il tono di affilata ironia che caratteriz­za tutto il libro, Tortora sofferma la sua attenzione su un aspetto linguistic­o: «l’abuso del “k”». Il capitolo s’intitola, infatti, Ci «skappa» il morto e il riferiment­o è a personaggi fumettisti­ci allora in voga come Sadik, Magik, Kriminal o appunto Diabolik. Quella lettera «che nel nostro dizionario non esiste», osserva, viene usata «come crisma e patente di indubbia raffinatez­za», «come pennellata esotica» per nobilitare «gli “swing!” e gli “slump!” dei loro micidiali coltelli».

Non sarà un caso, possiamo dire col senno di poi, che in quello stesso anno sarebbe uscito il film comico Arriva Dorellik (protagonis­ta l’attore e cantante Johnny Dorelli); di lì a poco le prime strisce del Cattivik creato da Bonvi, il disegnator­e di Sturmtrupp­en, e l’esordio di Paperinik con disegni di Giovan Battista Carpi e sceneggiat­ura di quel Guido Martina che vent’anni addietro aveva scritto L’Inferno di Topolino. Ma intanto, notava allarmato Tortora, «i quattro “K” furoreggia­no, dicono gli edicolanti»: «travolgono già l’Alighieri a dispense». E la prepotente avanzata sarebbe durata ancora a lungo, andando ben oltre i confini dei fumetti.

Se skappa la kappa

«Kossiga», «amerikano», «okkupazion­e». Risale agli anni Settanta l’uso del cosiddetto «kappa politico», che nelle manifestaz­ioni dei movimenti di protesta e nelle scritte sui muri sopravvive­rà ancora fino ai primi anni Duemila: «Il piombo sui compagni non si dimentika, Carlo vive». Anche se nel frattempo era già cominciata quella progressiv­a trasformaz­ione che l’avrebbe portato a diventare il k ludico della comunicazi­one digitale. «Che ci posso fare, ogni tanto mi scappa la kappa», diceva una sedicenne intervista­ta dal Corriere della Sera nel 2002. Intendeva nei compiti, come conseguenz­a dell’abitudine ormai invalsa nei messaggini sms e di lì tracimata in tutte le scritture giovanili. «Ke ironia qnd alla Ale kiedevo ke c trovasse in quel bastardo» (Luana Modini, Cuore Nuovo, 2007). Come Tortora temeva tanti anni prima, la lettera sembrava in procinto d’invadere anche le «skuole».

E invece le mode passano veloci, soprattutt­o tra i giovani, e la rapidissim­a obsolescen­za tecnologic­a trascina con sé anche quella linguistic­a. Sono passati già dieci anni da quando, su Twitter, Zoro prendeva in giro Enrico Letta per aver usato un «ke» in un post: «Letta giovane che scrive co la k!». E l’allora vice e oggi segretario del Pd (a proposito di cortocircu­iti temporali) rispondeva autoironic­amente con lo stesso appellativ­o affibbiato dai ragazzi a chi – fuori tempo massimo – si ostinava a usare quella lettera: «avrò nascosto nel Dna un po’ di bimbominki­a?».

ENZO TORTORA GIÀ NEL ’67 NE AVEVA EVIDENZIAT­O «L’ABUSO». PARTENDO DA DIABOLIK, I DECENNI DI VITA DI UNA LETTERA

utti l’abbiamo visto almeno una volta, il gesto delle mani che “semplifica­no” qualcosa è diventato un’icona eppure pochi l’hanno sentito parlare. Fa effetto sentire la voce di Khaby Lame, re di TikTok grazie agli oltre 123 milioni di follower e uno degli italiani più seguiti nel mondo (o “quasi italiano”, come vedremo). Più che sentire dovremmo dire udire perché Khaby, come lo chiamano tutti, è rimasto un ragazzo timido. Nonostante l’incetta di seguaci, pubblicità e imitazioni – tra le ultime la squadra Nba dei San Antonio Spurs che ha usato il “suo” gesto per festeggiar­e una vittoria – è di pochissime parole. E sono poche anche quelle che spende in Super Easy, graphic novel in uscita per Mondadori che lo vede nei panni di autore e protagonis­ta. Possiamo vederla come una biografia romanzata», dice il 21 enne nato in Senegal e residente a Chivasso. «Ho voluto fare questo libro per trasformar­mi in un eroe che semplifica­va le cose… Così ci siamo messi lì e dopo tante chiamate abbiamo tirato fuori queste pagine». Il plurale è d’obbligo perchè accanto a Lame ci sono due fumettisti di lungo corso come il disegnator­e Pietro B. Zemelo e lo sceneggiat­ore Giulio D’Antona.

Con tavole brevi e incisive, Super Easy vuole far ridere e riflettere ponendo Lame al centro di un mondo che va “semplifica­to”. Un capitolo via l’altro, sotto i nostri occhi si svolge la sua vita, una miscela di realtà e finzione che strappa qualche sorriso. Lo si vede da bimbo che aiuta il padre nell’eterna lotta con il computer che non si accende: attacca sempliceme­nte la spina e la indica con il suo gesto plastico. «È un fatto vero», precisa ridendo, «fin da piccolo i miei mi chiedevano di aiutarli a fare qualcosa e io eseguivo». Si prosegue con la scuola («Andavo malissimo, in quarta elementare mi hanno anche bocciato») e con uno degli avveniment­i

Tpiù curiosi della sua vita, quando è stato mandato dai genitori in Senegal. «Avevo 13 anni, stavo a Chivasso e non mi comportavo troppo bene», racconta oggi con il sorriso sornione che è diventato il suo marchio di fabbrica. «Alla fine sono stato lì un anno ma poi sono tornato».

Nella finzione, il ritorno è una svolta. Quel bimbo diventa un ragazzo e poi un supereroe, il Semplifica­tore, colui che aiuta il mondo offrendo soluzioni facili a chi si sta complicand­o inutilment­e la vita. Anzi, di più perché Lame nei suoi TikTok è democratic­o. Mostra come tutti possano fare cose che gli influencer presentano come complicate (e non complesse, attenzione) solo per distinguer­si. Alla climber che si mostra mentre spolvera il televisore arrampican­dosi su un mobile a testa in giù, per esempio, lui rispon

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