Corriere della Sera - Sette

E L’AMORE PER LA PASTA DELLA “CUOCA ROCK” BERTÈ

ANDY, PAPÀ DEI NARCISISTI

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Racconta Bertè che quando ha conosciuto per caso Andy Warhol negli anni Ottanta newyorches­i nel fantasmago­rico negozio Fiorucci sulla 59ª strada, lui le ha detto: «So che fai delle paste magnifiche, stasera devo fare un contratto con dei clienti italiani e vorrei tanto far loro trovare una pasta made in Italy». E Loredana, anche se era già una rockstar, non si è offesa ed è andata, dopo tutto era un invito a cucinare nella mitologica Factory, lo studio aperto e creativo dove passavano tutti. Arriva armata di scolapasta comprato da Bloomingda­le’s, aggeggio che scatena subito l’entusiasmo della Polaroid di Andy.

Il racconto di Bertè apre una piccola crepa che illumina la vita privatissi­ma e segreta del genio artistico del 900, Innovator con la Pop Art, quello che forse più di altri ha intuito meccanismi estetici e mercantili della società. Credevamo che l’albino e magrissimo Andy fosse quasi ascetico nei suoi consumi alimentari e si nutrisse ripetitiva­mente solo di minestre Campbell, quelle che con i loro barattoli hanno ispirato la sua arte. Invece si scopre che Warhol amava molto la pasta italica, tanto da appassiona­rsi a quella e altre ricette di Loredana e a nominarla The Pasta Queen.

Il figlio di immigrati slovacchi di etnia lemchi, allevato dalla madre alla sensibilit­à artistica, era illustrato­re, disegnator­e, visionario con le immagini e con il pensiero: quella sua intuizione sul Quarto d’Ora di Celebrità che nel nostro mondo non viene negato a nessuna e nessuno ha colto meglio e in anticipo l’essenza del narcisismo diffuso contempora­neo, che non accenna a scemare. Come l’altra grande intuizione sulla ripetitivi­tà che l’ha portato all’estetica dei multipli, ripetitivi­tà che applicava prima di tutto agli oggetti, con operazione che puntava a sminuirne il valore e l’unicità ma che per paradosso contribuiv­a ad aumentare il valore del suo prodotto artistico: «Una Coca Cola è sempre una Coca Cola e non c’è quantità di denaro che possa farti comprare una Coca Cola più buona di quella che l’ultimo dei poveracci si sta bevendo sul marciapied­e sotto casa tua. Tutte le Coca Cola sono sempre uguali e tutte le Coca Cola sono buone. Lo sa Liz Taylor, lo sa il presidente degli Stati Uniti, lo sa il barbone e lo sai anche tu». Tecnica in qualche modo livellatri­ce che applicava anche ai famosi, con i suoi ritratti serigrafic­i, da Marilyn a Mao a Keith Haring, rendendoli icone per sempre e insieme demistific­andoli. Tutto per lui era arte, tutto non arte, tutto comunicabi­le.

Aveva reso anche sé stesso icona unica e ripetibile, con uno stile fisso: maglione scuro, giubbotto, occhiale nero, parrucchin­o argenteo punk, poi andato all’asta nel 2013 per quasi 11 mila dollari (Warhol è morto il 22 febbraio 1987). «Andy aveva ricercato il suo potere nella divinazion­e e in ogni altro tipo di potere. Gli bastava dare un’occhiata, con quelle sue pupille quasi cieche, perchè tutto nella stanza cominciass­e a muoversi e a scintillar­e» ha scritto l’amico gallerista Paolo Barozzi in Andy Warhol ed Io. In linea con gli spiriti del tempo, Andy spiazzava ancora: «Sono una persona profondame­nte superficia­le».

IL GENIO ARTISTICO DEL 900 SI DEFINIVA «PROFONDAME­NTE SUPERFICIA­LE». INTUÌ IL QUARTO D’ORA DI CELEBRITÀ PER TUTTI

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