Corriere della Sera - Sette

VOGLIAMO QUEI CORPI DA AMARE MA CONDIVIDER­E IL DOLORE AIUTA

SÌ, OGNI PERDITA È INACCETTAB­ILE

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Da piccola avevo una passione per i burroni. Mi veniva dal cartone animato Là sui monti con Annette, in cui il fratellino della protagonis­ta cadeva da un burrone e il trauma segnava tutti per sempre. Giocavo a far cadere chiunque dal burrone del mio letto. Persino Lady Oscar,

una specie di Barbie meno procace e in uniforme blu,

morì precipitan­do sul pavimento della mia cameretta. Il suo fidanzato, Pinocchio, non lo accettò. Era di gomma e girava con i libri sotto braccio perché faceva il maestro elementare. Portò l’amata in classe con sé, ogni giorno, per non separarsen­e. La salma accanto alla lavagna non scatenò proteste.

«Perché non avete imbalsamat­o la mamma quando è morta?» chiede una bambina ai nonni in un racconto di Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamuji, emergente voce bosniaca appena tradotta. Non credo che Pinocchio avesse imbalsamat­o Lady Oscar, ma l’idea di un’assenza irrevocabi­le produceva in me lo stesso cortocircu­ito.

Conosco un anziano che, dopo la morte della moglie, ha riempito la casa di foto sue. Una è sul tavolo, per mangiare con lei, una accanto al divano, per leggere in sua compagnia, una sul comodino, per spartirsi ancora il sonno. Conosco un’anziana che, dopo la morte del marito, ha continuato a parlargli, lo saluta rientrando o uscendo da casa, quasi fosse custodito, anzi trattenuto, dalle pareti fra le quali si è svolto il loro matrimonio.

I bambini e gli anziani sono più sinceri: non si fanno abbindolar­e dal buon senso o simili prese in giro. Sanno che la perdita è sempliceme­nte inaccettab­ile. Rivendican­o il bisogno della presenza fisica, si aggrappano ai simulacri di quel «corpo che era il mio corpo da amare», come scrive ne Il ramo spezzato Karen Green, la vedova di David Foster Wallace.

In Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi, Golden Globe e premio per la sceneggiat­ura a Cannes, candidato a 4 Oscar, un attore e regista teatrale continua ad ascoltare in auto la voce della moglie, che gli ha registrato le battute di Zio Vanja per aiutarlo a memorizzar­le. A Hiroshima, la sua autista è una ragazza che ha imparato a guidare da adolescent­e, in un modo dolce abbastanza da non svegliare la madre a bordo, che si sarebbe arrabbiata fino ad aggredirla. Adesso che questa moglie e questa madre non ci sono più, rimangono un’audiocasse­tta e una profession­e. Adesso non è più possibile conoscere la verità su di loro, perché ciascuno di noi è un mistero imperscrut­abile, e nessun amore, per quanto potente, potrà mai svelarlo. Ma chi riesce a condivider­e il dolore con qualcuno, come fanno il regista e la ragazza nell’abitacolo della Saab 900 Turbo, forse può arrivare a perdonarsi per non aver salvato le persone che amava. E soprattutt­o a perdonarle di essersene andate via.

DA PICCOLA NON CONCEPIVO L’IDEA DI UN’ASSENZA IRREVOCABI­LE

I BAMBINI COME GLI ANZIANI NON SI FANNO INGANNARE

Godot al confronto era uno che si faceva vivo spesso. Corrado Guzzanti è fatto così, un misto di pigrizia accidiosa e maniacale voglia di perfezione che ne fanno uno dei personaggi più evocati e meno presenti. Sì, recita nel BarLume ma non vale, perché i suoi fan lo vogliono solista, battitore libero e lo venerano come i suoi seguaci fanno con Quelo, il santone cialtrone che è una delle sue innumerevo­li creazioni strepitose. Praticamen­te aveva dato buca per sei anni di fila, l’ultima vera epifania con Dove è Mario?. Adesso Corrado Guzzanti torna in tv con Lol — Chi ride è fuori (prodotto da Endemol Shine Italy) che verrà rilasciato su Prime Video dal 24 febbraio.

Come mai esce dalla sua comfort zone casalinga?

«Ho preso una decisione che ha stupito pure me stesso, appena ho accettato mi sono dato del pazzo. Mi ero chiuso in un eccesso di comfort zone aggravato da due anni tappato in casa per la pandemia. Considero quest’esperienza uno sport estremo, come buttarsi con il deltaplano o fare bungee-jumping, avevo bisogno di uno choc terapeutic­o come una serie di sedute junghiane. È una decisione un po’ folle, perché è lontana dalla mia storia».

La sua comicità è soprattutt­o intellettu­ale, scritta e pensata, anche se non disdegna le battute di pancia («‘mbuti»). La prima edizione di Lol sembra aver dato spazio alla comicità slapstick, all’esuberanza della mimica. Questa come sarà?

«Ho l’impression­e che ci siano meno trovate di pancia rispetto alla scorsa edizione. Io ho una passione per il mondo dei comici e per la loro disperazio­ne — come ho raccontato anche in Dove è Mario? —, qui il cast

Il comico più sfuggente della tv riappare con Lol Chi ride è fuori. «Ho accettato, poi mi sono dato del

pazzo. Dura fare tre battute se nessuno reagisce»

DI RENATO FRANCO

è oculato, ci sono comici di estrazione ed età diverse: gli youtuber, quelli che vengono dal teatro, gente che scrive, gli anzianotti come me (quando cominciano a chiamarti maestro vuol dire che sei invecchiat­o, e mi imbarazza pure). Lol è uno zoo di comici, con le giraffe, i leoni, gli elefanti... Questa convivenza di ore e ore, una maratona infinita, è un esperiment­o interessan­te perché si creano interazion­i che in altri contesti non sarebbero state possibili».

Tra i comici in gara chi è stato quello più difficile a cui resistere?

«Quelli più affini a me, con cui ho inevitabil­mente interagito di più, come Virginia Raffaele e Maccio Capatonda. Nel gruppo c’era chi voleva disperatam­ente vincere e pensava alle strategie, chi aveva paura di rimanere solo e voleva uscire prima. Io ho vissuto quest’esperienza in modo più sportivo che competitiv­o, la vittoria al gioco non conta: per me non era importante non ridere ma far ridere chi guarda».

I comici in cattività, una sorta di reality dell’umorismo: dal suo punto di vista qual è l’aspetto più interessan­te del gioco?

«Ho seguito la prima edizione perché volevo vedere cosa combinava mia sorella Caterina e ho trovato il meccanismo affascinan­te. Penso che questa reclusione sia un interessan­te saggio antropolog­ico sui comici, ancora più interessan­te per gli addetti ai lavori: è dura dire tre battute e vedere che nessuno ride».

L’ultima volta in tv è stato sei anni fa. È una questione di pigrizia o perfezioni­smo?

«Tutti e due..., un misto di accidia e maniacalit­à. E poi penso che a causa della politica lo scenario della satira sia molto cambiato negli ultimi anni. Mi sembra che le cose che facevo anni fa adesso avrebbero meno senso. Oggi c’è una satira molto di consumo sull’attualità, sulle ultime 24 ore... Probabilme­nte tornerò a fare uno spettacolo a teatro e sto scrivendo una serie comica, strampalat­a, che come spirito ricorda Fascisti su Marte».

Adesso funziona l’immediatez­za: Osho (una foto, una battuta), Lercio (false notizie con taglio ironico), Spinoza (la satira sull’attualità in un tweet). La satira è morta?

«Oggi è più difficile fare satira, il livello della politica negli ultimi anni si è talmente abbassato che fare le parodie diventa un esercizio sterile: una parte della classe politica è satiricame­nte totalmente autosuffic­iente, non ha bisogno di commenti. E poi è cambiato il linguaggio, la satira è esplosa sui social, è diventata uno sport nazionale.

Una volta esisteva solo sulla tv generalist­a, oggi il web ne trabocca, tutti fanno satira, gli stessi giornalist­i fanno battute pungenti, è un linguaggio molto più diffuso. Osho mi diverte molto ma fa riflettere che uno dei satirici più influenti faccia dei meme e non degli sketch, basta una foto con un dialogo immaginato, il monologo non serve più».

Non è una bella notizia, la satira ha da sempre una funzione sociale, accende un faro sulle contraddiz­ioni della classe politica.

«Oggi la satira è un fast food di alta qualità, è velocissim­a, immediata. In realtà sento parlare di crisi della satira da quando ho cominciato, ed era il 1988. Diciamo che oggi mi sembra estinta la satira che cerca di raccontare di più, ma parliamo di un linguaggio che si trasforma, in continua evoluzione. Doma

Sopra, Guzzanti nei panni di Vulvia ne

la trasmissio­ne tv andata in onda su Rai2 nel 2001, condotta da Serena Dandini. Sotto, Il comico nelle vesti di altri due personaggi, fra cui il chitarrist­a Lorenzo, del 1995. Nella pagina accanto, Guzzanti oggi. È nato a Roma nel 1965

«HO UNA PASSIONE PER IL MONDO DEI COMICI E PER LA LORO DISPERAZIO­NE. LE COSE CHE FACEVO ANNI FA OGGI NON AVREBBERO SENSO»

ni diventerà un’altra cosa, oggi è così: battute fulminanti, meme».

È una delle sue riflession­i più tristement­e comiche: «Solo ripetendo sempre gli stessi errori si impara a eseguirli alla perfezione». Vale anche per la sinistra di oggi?

«Loro sono i maestri supremi nella ricerca della perfezione dell’errore grossolano, ma si può sempre fare di meglio...».

Riesce a essere ancora di sinistra?

«È una domanda che non mi faccio più, certamente non sono di destra... mi sento di sinistra ma faccio parte di quella buona parte di popolazion­e italiana che nella sinistra di oggi non si rispecchia».

Gli italiani sono peggiorati?

«Non lo so, certo il covid ci ha mostrato un’umanità che non sospettava­mo esistesse. E poi questi sono anni in cui l’eccesso di informazio­ne ha fatto emergere risvolti drammatici: non so chi guarda più i tg, mi sembra che Facebook sia più potente nel bene e nel male, viviamo una perdita generale di credibilit­à, l’esperto viene visto con diffidenza».

I social?

«Hanno aperto un canale di sfogo sulla nevrosi e sulla rabbia repressa delle persone, non li frequento tanto, ma capisco che hanno livellato tutto, ogni opinione è buona, ogni verità è buona. L’effetto dell’algoritmo, del feed, poi è micidiale: pensi che le tue idee siano l’opinione diffusa, le scambi per la realtà. Ti arrivano solo conferme, nessuna smentita: è una piega inquietant­e».

Poca vita mondana, la noia è una spinta a essere creativi?

«Anche annoiandos­i il cervello non smette mai di lavorare, io mi appunto continuame­nte idee, ho macigni di spunti su Word dove scrivo le cose più disparate, migliaia di pagine con battute e invenzioni. È diventata un’encicloped­ia senza alcun ordine dove in mezzo c’è anche la lista della spesa; ogni giorno aggiungo qualcosa e mi ci perdo quando la rileggo... Non ho paura di annoiarmi, anzi la noia è uno stimolo. Da tempo, come diceva quel filosofo, sono fuori dal tunnel del divertimen­to...».

I Delitti del BarLume cosa rappresent­ano?

«In questo caso molto divertimen­to. Mi piace interpreta­re questo veneto che incarna l’italiano medio, ambizioso, furbo ma non tanto intelligen­te. L’italiano medio è quello che non si sente tale e ride fragorosam­ente pensando che si parli di qualcun altro».

Ci sarà il nuovo Boris con il cast

«L’ITALIANO MEDIO È QUELLO CHE NON SI SENTE TALE E RIDE, FRAGOROSAM­ENTE, PENSANDO CHE SI PARLI DI QUALCUN ALTRO»

storico questa volta alle prese con il mondo dello streaming e delle piattaform­e social...

«Incrociand­o le dita delle mani e dei piedi mi sembra che queste nuove puntate siano molto divertenti. È un ritorno evocatissi­mo, Boris aveva tanti orfani, la spinta è stata anche la voglia di noi amici di fare un omaggio a Mattia Torre che non c’è più».

Il suo pubblico la aspetta con grande venerazion­e: si sente Godot? E soprattutt­o arriverà?

«Il fatto è che cerco di trovare progetti in cui mi posso divertire, non sono uno che si limita a timbrare il cartellino se non ho niente da dire».

Tra timbrare il cartellino e il fine pena mai c’è una via di mezzo...

«Diciamo che stiamo lavorando per la via di mezzo. Sì, arriverò...».

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Dall’alto, i tre fratelli Guzzanti: da sinistra Sabina, Caterina e Corrado; con Virginia Raffaele nella nuova edizione di Lol - Chi ride è fuori; Guzzanti nella nuova serie de I delitti del Barlume

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