IL GIUSLAVORISTA UCCISO (E DA PAROLE IRRESPONSABILI)
DA UNO STATO DISTRATTO
Obiettivo centrato: il timbro sul muro dei portici di via Valdonica a Bologna era definitivo, e indicava il corpo ormai senza vita del giuslavorista Marco Biagi che dava fastidio alle nuove Br perché agli inizi degli anni Duemila avanzava proposte per risolvere la questione del lavoro in accelerata trasformazione. E che ora, in quella sera del 19 marzo, era stato giustiziato mentre dalla stazione arrivava a casa in bicicletta.
Un uomo normale, con una famiglia normale, un professore di Diritto del lavoro che ancora una volta era stato lasciato solo da uno Stato forse più distratto e noncurante che malevolo: e difatti una pentita avrebbe poi raccontato che fra i tanti servitori dello Stato era stato scelto proprio lui perché obiettivo più semplice, ormai lasciato senza scorta, facilmente individuabile e abbattibile, bastava monitorarlo un po’: «Altezza soggetto 1,75/1.78, capelli neri più scuri in cima ai lati grigi, accento nordico, sbarbato, magro, viso minuto e soprattutto soggetto che non dispone di protezioni oculate», recitavano così i mini rapporti di quelle nuove Br molto meno organizzate delle precedenti, che rivendicarono subito, con procedura inedita, via email, l’omicidio di quel professore che lavorava «a un progetto di rimodellazione dello sfruttamento del lavoro salariato». Tre anni prima avevano colpito Massimo D’Antona, anche lui collaboratore del ministero del Lavoro.
Biagi avrebbe voluto essere solo un professore normale, come raccontano i filmini familiari del documentario Rai Nel nome del popolo italiano firmato da Gianfranco Ciagni. Uomo simpatico, di accattivante accento bolognese, molto amato in famiglia, per i suoi studi comparativi allargati sul lavoro nel mondo era diventato consulente del governo: prima di centrosinistra e poi di centrodestra. Quando morì, Biagi dibatteva sul superamento dell’art. 18, avversato per ciò da molti nel mondo sindacale. Nell’ultimo articolo sul Sole 24 ore lanciava la sfida: Il dado è tratto: modernizzazione o conservazione?
Nel suo libro Spingendo la notte più in là (andrebbe letto in ogni classe) Mario Calabresi vede analogie non solo familiari con il delitto di cui nel ’72 era rimasto vittima suo padre, il commissario Luigi. C’è una simile costruzione del mostro: «Le calunnie, ripetute con insistenza, sono capaci di costruire una biografia. La storia dell’omicidio Biagi è una storia di follia ma anche un apologo sul linguaggio. Sull’uso leggero, poi disinvolto, infine irresponsabile, delle parole. Sulle gabbie che si possono costruire, capaci di incastrare la vita di una persona, annodando insinuazioni, battute, scritture, scritte, volantini, frasi taglienti e silenzi ostentati». E la moglie di Biagi, Marina Orlandi, ha raccontato come all’ultimo fosse per lui atroce essere «dipinto come una persona diversa da quella che era».
È un copione amarissimo che si autoalimenta, nell’indifferenza di molti, e nell’odio irriducibile di alcuni: l’anno scorso, sotto un post delle Acli che commemorava Biagi, è comparsa la scritta: «Ringraziamo per la precarietà, il praticantato fino a 27 anni, i contratti di un mese... Dovevano sparargli prima, altro che».
MARCO BIAGI SOFFRIVA PERCHÉ VENIVA «DIPINTO COME UNA PERSONA DIVERSA». UN ANNO FA LA SCRITTA: «DOVEVANO SPARARGLI PRIMA»