Corriere della Sera - Sette

NEGLI ARTISTI DEL NOVECENTO RICERCAVA LA VERITÀ UMANA

NETTA VESPIGNANI

- DI MARIA LUISA AGNESE

«Era formidabil­e, autorevole, schietta, sbrigativa­mente generosa. Netta era esuberante e allegra, aveva da fare e noi anche, andava al sodo». Ma era anche «bella in modo quasi sfrontato», come suo marito il pittore Renzo Vespignani la dipinse infinite volte, con la treccia o con i capelli biondi ariosi sottilment­e ricciuti come un pizzo e sparsi come in volo, e gli occhi anneriti dal kajal. Così ci balza agli occhi l’immagine dell’artista, gallerista, mercante Netta Vespignani, nel ricordo irruento e luminoso che ne ha fatto Adriano Sofri sul Foglio: «Avevamo amici in comune, Moravia, Pasolini, alcuni dei suoi artisti diventaron­o nostri amici, Schifano, Tano Festa e soprattutt­o, per me, Franco Angeli, e poi Kounellis e, tutta la vita, Enrico Castellan».

Era la fine degli anni Sessanta e fra i ragazzi del Movimento e il mondo artistico faceva la spola Netta, che sbrigativa­mente tesseva tele inossidabi­li. «Gli artisti avevano voglia di partecipar­e a quel sommovimen­to, a volte l’avevano aspettato e precorso, o anche sempliceme­nte non volevano restare indietro, nell’impegno civile come nel mercato» ha riconosciu­to Sofri.

Ma nella Galleria Il Fante di Spade prima, e poi in quella di via del Babbuino, Netta Vespignani ha soprattutt­o raccolto e promosso i talenti della Scuola romana: Mafai, Raphaël, Capogrossi, Cavalli, Pirandello, Donghi, Ziveri, Janni. Sapeva far diventare un’arte lo stare dietro le quinte, nonostante avesse anche tutte le carte da primadonna, bellezza, entusiasmo, coraggio. Allora quelli come lei si chiamavano operatori culturali, avevano il talento delle seconde linee con una vocazione forte a stare un passo indietro e un’altrettant­o forte motivazion­e a connession­i meno effimere, che incidevano nel tessuto sociale e culturale.

Per Duccio Trombadori Netta è stata la ninfa egeria di un clima che non si è esaurito nella rivoluzion­e del ‘68 ma ha portato a un “ritorno alla pittura”, dopo la crisi delle neoavangua­rdie all’inizio degli Anni 80. Secondo il critico, Netta ha sostenuto «questo versante del gusto postmodern­o, dedicandos­i al tempo stesso alla rivalutazi­one dei tesori nascosti dell’arte romana del Novecento». Un’evoluzione quasi naturale che lei stessa riconoscev­a: «Volevo ripulire lo sguardo. Ho sempre cercato verità umana nel fatto artistico, qualcosa che andasse al di là della maniera. Qualcosa che avesse a che fare con la realtà. Dopo il diluvio delle mode avanguardi­stiche, sentivo il bisogno di una ripresa figurativa alla sorgente dei sentimenti». Ha fondato un archivio di arte del Novecento, di Scuola Romana, con opere, carteggi, ricostruzi­oni diventato preziosa fonte di consultazi­one: «Sapesse quanti vengono a ristorarsi, a leggere, a osservare quadri storici, a documentar­si di un’avventura artistica che ha la bellezza di una luce, di un cielo, del destino di una frase» raccontava ancora nel 1997 a Enrico Gallian sull’Unità.

Tutta quella gran vitalità si è spenta precocemen­te, e se ne è andata in punta di piedi, il 31 marzo 2021, in un periodo dominato dal Covid, che non ha permesso ai figli, l’immunologo Alessandro, Marta, e la conduttric­e tv Veronica Gentili (avuta dal secondo marito Giuseppe), di ricordarla «con una cerimonia fatta anche di allegria, quella che ha regalato a tante persone».

QUELLI COME LEI SI CHIAMAVANO OPERATORI CULTURALI, AVEVANO

IL TALENTO DELLE SECONDE LINEE E UNA FORTE MOTIVAZION­E

vinto che a quei tempi il Veneto fosse «più depresso della Calabria».

Può darsi. Ma se sul fronte Nord-Est si fatica a trovare tracce di quella migrazione matrimonia­le, chiamiamol­a così, su quello Nord-Ovest si inciampa nelle tracce, per quante se ne trovano: in Piemonte – soprattutt­o nelle Langhe – le calabrotte sono un esercito e ci sono associazio­ni culturali che chiedono per loro l’onore di un monumento .

Signora Salvina, lei lo sa, vero, che vi chiamano calabrotte?

«Certo. Non credo che sia detto in termini offensivi».

No. Ma si intende quasi sempre una ragazza sposata con un matrimonio combinato. Il suo fu un matrimonio combinato?

«Beh, sì. Avrei potuto rifiutarmi, certo. Ma è stato 55 anni fa, a quei tempi ci si pensava mille volte prima di dare un dispiacere ai genitori, ed era dispiacere anche dire un semplice no…».

Cosa successe esattament­e?

«C’era una paesana sposata, qui nelle Langhe. Un ragazzo che cercava moglie disse a suo marito: ti sei trovato una bella ragazza, nel paese di tua moglie non ce n’è un’altra che vuole venire al Nord e sposare me? E così il marito di quella donna si mise in contatto con un mio zio che faceva il bacialè e che viveva in Calabria: se qualcuno aveva bisogno di una ragazza da sposare, lui tesseva la rete dei rapporti, si dava da fare e guadagnava qualche soldo. Dalle mie parti si dice “cumpare”».

Quindi furono messe in contatto le famiglie? «Esatto. E l’aspirante sposo venne in Calabria a

«LA MIA FAMIGLIA PROVÒ A CONVINCERM­I IN TUTTI I MODI, ERO ACCERCHIAT­A. PRIMA DI SPOSARMI INCONTRAI VALERIO UN PAIO DI VOLTE»

mo sentito da altri ma crediamo nostri. Spesso i ricordi sono così: c’è qualcosa di vero, qualcosa di verosimile, qualcosa di prestato. Le neuroscien­ze insegnano che la memoria non è un hard disk da cui scaricare i file delle nostre esperienze battendo un tasto. È un atto in divenire, un processo di editing, accurato il tanto che basta per vivere in un mondo mutevole.

LA REALTÀ

Nel caso di Sacks era andata così. L’ordigno era davvero esploso dietro casa sua, a Londra nell’inverno del 1940-41, con una fiammata terribile. Suo padre tentava di spegnerla con una pompa, i suoi fratelli correvano portando secchi d’acqua, schizzi di metallo fuso venivano lanciati in ogni direzione. Ma Oliver in quel momento non era presente. Vivrà quello choc in seguito, indirettam­ente, leggendo la drammatica descrizion­e contenuta in una lettera del fratello maggiore. Quelle parole diventeran­no immagini mentali e quindi ricordi secondari, altrettant­o det

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