Corriere della Sera - Sette

ATTORNO A NOI TROPPE RIVALITÀ È ORA DI SCENDERE DAL RING PERCHÉ L’EMPATIA CI FA CRESCERE

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«Tu non lo sai» è la risposta di mia madre quando, in momenti di cocente dispiacere, delusione o vero

e proprio dolore, mi capita di sfogarmi con lei chiedendol­e: «Com’è possibile che mi vada tutto storto? Che mi sia successo questo? Perché a me va così, mentre lui/lei è tanto felice?».

Fa sempre una pausa prima di riprendere il discorso: «Tu non sai come sta davvero quella persona. Magari soffre o ha sofferto quanto te. Pensa a chi ti crede felice e non immagina. Non sappiamo niente. E, comunque, non è una gara».

Ogni volta che dice così, riemergo dal pantano e riacquisto lucidità. Mi torna la voglia di sapere degli altri quello che non so, di convertire l’invidia in alleanza. Tra tutti i sentimenti, infatti, l’invidia è quello che mi disturba di più. Quando mi attraversa in piena debolezza, mi vergogno. Lo avverto come un veleno che mi peggiora, come una camicia di forza che mi ingabbia. Perché in realtà lo so che la felicità altrui può essermi d’aiuto, che non mi toglie niente.

Purtroppo viviamo in una società che l’invidia la fomenta. Che ci invita sempre e ovunque, sui social come in strada come sul lavoro, a una competizio­ne cieca. Siamo chiamati a esibirci in uno spettacolo permanente e senza stonature, in cui recitiamo la parte di eroi senza macchia e non conosciamo il dolore, i fallimenti, le perdite. Come stai? Bene, benissimo addirittur­a. La sofferenza mostrata è uno scandalo che mette a disagio, suona come la prova che non ce l’hai fatta. Non la puoi ammettere. La devi tacere, nascondere. E io, ogni volta che sono sopraffatt­a da un evento che mi spezza il cuore, penso sempre che questa farsa non abbia alcun senso. Perché il dolore è una radice ineliminab­ile della vita e di noi stessi. E la ricerca della felicità è l’altra sua faccia.

Se penso a cosa mi è successo di importante negli ultimi anni, la prima cosa che mi viene in mente è che ho perso a causa di una malattia due persone care. Lo sanno gli amici. Sui social o nelle interviste non l’ho raccontato. Ho elaborato il lutto attraverso la letteratur­a, nel tempo, nel silenzio, nella creatività che è una reazione al vuoto. Però penso che ne dovremmo parlare, del dolore: non è una colpa, è il motore dei cambiament­i che segnano la nostra storia.

Ci siamo tutti immersi, nella vita che non è una recita né una festa, e per riuscire ad attraversa­re i momenti difficili che ci impone, non ci serve la competizio­ne: ci servono la curiosità e l’empatia.

Lo so: abbiamo paura di essere colpiti dove già fa male, di essere compatiti, nell’accezione fasulla e svilente del termine, o che la nostra fragilità venga derisa, fraintesa. Ma così aggiungiam­o sofferenza a sofferenza, ci isoliamo, e nella solitudine è un attimo soccombere. Dovremmo scendere dal ring, io credo, e ricordarci, prima di giudicare qualcuno, che di lei/lui «non sappiamo».

AL LAVORO, SUI SOCIAL DOBBIAMO RECITARE LA FARSA DEGLI EROI CHE NON CONOSCONO LA SOFFERENZA: CHE SENSO HA?

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